Cinema e lavoro minorile: rappresentazioni fuori dal comune

2009/07/21 Type of resource Bibliographies and filmographies Topics Child labour Titles Rassegne filmografiche

Premessa

L’accezione negativa che si è soliti assegnare al termine “lavoro minorile” si genera, tra gli altri motivi, anche dalla diffusa convinzione che il processo di scolarizzazione degli adolescenti deve durare il più a lungo possibile. Se ciò non avviene, se il minore abbandona anzitempo l’iter scolastico, si crede che entri in un limbo nel quale si esperiscono situazioni di difficoltà e di disagio piuttosto che di maturazione e di apprendimento, in una sorta di status negativo che prescinde le scelte e le attitudini del singolo. Dati statistici e studi più approfonditi smentiscono questa convinzione affermando che non si tratta di una registrazione obiettiva dell’esistente, bensì della sedimentazione d’immaginari e luoghi comuni consolidatisi nel tempo. Il cinema, che si nutre dell’immaginario degli autori più che della realtà oggettiva, che racconta storie di singoli personaggi più che cercare rappresentazioni universali e condivise, dovrebbe essere un fedele specchio di questa prospettiva “falsata”. A maggior ragione se si prende in esame – come verrà fatto in questo articolo – il cosiddetto “cinema di denuncia”, quello che racconta i mali della società, che punta l’indice contro le contraddizioni del reale, per suscitare nello spettatore sensibilità verso un problema o sdegno civile. Dovremmo assistere, a rigor di logica, a film su minorenni che, lasciati gli studi, sono costretti ad itinerari di devianza o emarginazione, sfruttati per tornaconti particolari, disorientati di fronte al mondo degli adulti nel quale prematuramente hanno fatto il loro ingresso. La questione del lavoro minorile è una sfida al cinema e alle sue capacità di analisi e di rappresentazione del reale anche per un altro motivo. Siamo di fronte, infatti, ad un fenomeno sfaccettato, che coinvolge un larghissimo spettro di esperienze, che varia da nazione a nazione, da continente a continente, all’interno del quale è difficile separare con certezza le diverse forme di lavoro minorile dalle diverse forme di sfruttamento minorile, assegnare un differente giudizio etico, mentre è più facile imbattersi in una ampia zona grigia dove aspetti positivi e negativi si presentano senza soluzione di continuità. La domanda, dal nostro punto di vista, appare ineludibile: il cinema è capace di ritrarre la complessità dell’argomento, di superare i luoghi comuni e i limiti teorici per spiegare, seppur indirettamente, un po’ di più il suo funzionamento?

Tra sopravvivenza, sogno e realizzazione di sé  

Ad una prima analisi generale – che metta in relazione opere di diversa provenienza storica e geografica e di ogni stile e poetica – si riesce a scorgere, nonostante l’eterogeneità della materia, un punto di contatto generalmente valido: non è vero che la settima arte rappresenta solo in chiave negativa l’esperienza dei minori che lavorano, anzi in taluni casi va contro gli stereotipi per sottolineare gli aspetti “nobili” che l’occupazione può portare con sé, come l’acquisizione di senso di responsabilità, la creazione di competenze, l’inserimento sociale, la sussistenza famigliare. Esistono certo delle eccezioni1, ma complessivamente quello lavorativo non è il momento più traumatico nella vita dei piccoli protagonisti dello schermo. Sono altre le difficoltà che devono superare. È il caso dei film neorealisti del secondo dopoguerra italiano: Giuseppe e Pasquale, protagonisti di Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica, lavorano come lustrascarpe, compiono piccoli traffici di borsa nera. I soldi che “raccattano” servono per le spese della casa, ma anche per comprare un cavallo bianco, simbolo della realizzazione dei desideri e dell’emancipazione dal mondo degli adulti. Lustrare le scarpe – per loro – è il mezzo per avverare un sogno di libertà. Sarà l’istituto del carcere a separare i due amici e a segnare la fine della loro amicizia. Il piccolo Bruno nel capolavoro desichiano Ladri di biciclette (1948) lavora invece a una pompa di benzina: al contrario del padre riesce a conservare il proprio impiego, accompagna il genitore alla ricerca della bici che gli è stata rubata, lo salva da numerose situazioni di difficoltà, non ultima dal rischio di essere picchiato da una folla inferocita nel corso dell’ultima drammatica sequenza del film. Bruno “non è soltanto un piccolo adulto, egli svolge un ruolo di supplenza del ruolo paterno, è la colonna portante della famiglia, da un punto di vista economico, ma non solo. Anche Edmund, protagonista di Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini, è l’unico componente della sua famiglia che lavora. L’itinerario di emarginazione e morte che lo condurrà al suicidio, dopo una lunga peregrinazione nella Berlino distrutta dalla guerra, non a caso inizia dopo l’allontanamento dalla sua attività di scavatore di fosse per defunti. Anche in questo caso l’occupazione nonostante sia instabile, in nero e irregolare, àncora gli strati più deboli e indifesi della società alla vita. Se in anni postbellici i minori si adoperano per mantenere gli adulti, in altre epoche meno drammatiche il lavoro può rivelarsi uno spazio di espressione personale o di formazione pratica. Cacciato da scuola, scappato da un centro di rieducazione giovanile, Jean Pierre Leaud, protagonista de I quattrocento colpi (1959) prima, e di Antoine et Colette poi (1962), entrambi di François Truffaut, vive da solo, lavora, si fa da mangiare, in altre parole è totalmente indipendente dagli adulti. Quando incontra Colette e se ne innamora, sceglie l’arma della sua autonomia e della sua maturità per provare a conquistare il cuore della bella coetanea. Ne Gli ultimi (1963) di Vito Pandolfi, Checo, dieci anni, al mattino va a scuola e al pomeriggio al pascolo. Se ogni volta che prova a relazionarsi con i coetanei viene irrimediabilmente escluso, è nel lavoro nei campi, ma più in generale nei piccoli gesti di una quotidianità che richiede concretezza e capacità pratiche, che egli trova il modo di costruire la propria identità. Quello che al mondo cittadino parrebbe un prematuro inserimento nella dura vita agricola, per l’universo contadino (il soggetto di David Maria Turoldo è autobiografico) è una sorta di ritorno catartico alla terra, ai suoi ritmi e alle sue regole. È nella dimensione del lavoro che Checo riesce a fondere il suo sforzo con la pienezza della natura giustificando, di conseguenza, la sua presenza e la sua azione”. Un altro film interessante, sottovalutato ma estremamente profondo e attuale, è Lunga vita alla signora! (1987) di Ermanno Olmi. Il protagonista è Libenzio, un timido sedicenne che, insieme ad alcuni suoi coetanei, fa l’apprendista cameriere in un lussuoso albergo dove si sta tenendo un pranzo di gala per festeggiare un’anziana signora. La storia è in realtà una grande metafora del passaggio dall’infanzia all’età adulta attraverso il primo contatto con mondo del lavoro e con le ingiustizie e le disuguaglianze – soprattutto di censo – che albergano in esso. I camerieri si dispongono nelle sale secondo una rigida gerarchia, devono seguire codici di comportamento definiti con certosina precisione, rimangono, in ogni caso, estranei ai centri di decisione e potere (il tavolo e i suoi commensali), come piccoli denti di un ingranaggio ben oliato, più grande di loro, di cui non hanno controllo. Libenzio è un osservatore privilegiato dell’assurda situazione: egli acquista sequenza dopo sequenza una consapevolezza sociale che nessuna scuola probabilmente avrebbe saputo trasmettergli. Più di recente è il cinema di Luc e Jean-Pierre Dardenne ad essersi confrontato, con profondità e sguardo non convenzionale, con le contraddizioni dell’universo lavorativo. Le storie dei Dardenne sono popolate di personaggi (spesso adolescenti) soli, emarginati, problematici, che conoscono solo la dimensione del fare, del lottare, della materialità dell’essere. In La promesse (1995) Igor è un quattordicenne apprendista meccanico che aiuta il padre nell’organizzazione di un traffico di immigrati clandestini, ne Il figlio (2003) un falegname scopre che uno dei suoi giovani praticanti altri non è che l’assassino di suo figlio, uscito dal carcere e inserito in un progetto di recupero e inserimento sociale. In Rosetta, il loro film più riuscito, la protagonista, 16 anni circa, cerca un posto di lavoro, con una determinazione fuori dal comune, per mantenere se stessa e la madre alcolizzata. Non lo fa solo per una questione di sopravvivenza: la sua lotta – che la porterà addirittura a tradire senza esitazione la fiducia dell’unico amico che possiede – è una vera guerra contro tutto e tutti, una affannata rincorsa alla ricerca della dignità e di una apparente normalità che non si trova né in famiglia, né negli affetti. I tre film sono accomunati da una concezione in chiaroscuro del lavoro, da una parte indispensabile e necessario, dall’altra fonte di sofferenza e ingiustizia: ne La promesse, il lavoro (nero, precario, schiavista) è l’unico strumento che ha Igor per cercare un contatto con il proprio padre, ne Il figlio non è solo lo strumento per apprendere i segreti di una professione, ma anche per vivere un faticoso itinerario di perdono e redenzione, in Rosetta è la bombola d’ossigeno senza la quale il senso stesso dell’esistenza verrebbe meno, in tutti e tre i casi è il centro dove si decidono i destini delle persone, dove ognuno è costretto a mettere in gioco se stesso, a relazionarsi con l’altro senza protezioni, ad adattarsi alle condizioni esterne, a costruire o vedere irrimediabilmente danneggiata la propria identità. Per un cinema pensato come documentario e per una macchina da presa usata come pala per scavare nella realtà, il lavoro, motrice della vita sociale, diventa per i registi belga l’unica location possibile per i loro film. È curioso sapere che questo gioco di dare/avere tra la realtà e il cinema non funziona solo in una direzione: in Belgio l’insieme delle leggi che regolamentano il lavoro l’occupazione giovanile, varate dal governo alla fine degli anni Novanta, sono state denominate “Leggi Rosetta”.

Lavoro e sfruttamento nelle cinematografie del sud del mondo  

Se si allarga l’analisi a cinematografie lontane dalla nostra, ci si accorge che altri stereotipi sono destinati a cadere. Innanzi tutto si scopre che anche nei paesi del sud del mondo lavoro minorile e sfruttamento non sono sinonimi di uno stesso fenomeno: se è pur vero che, dati alla mano, gli esempi di ricorso alla manodopera infantile sono più frequenti che in Europa o negli Stati Uniti ed il tasso di scolarizzazione è più basso, gli scenari che si presentano non sono a tinte uniche, ma frutto di fattori eterogenei, di concause, di situazioni diverse che si intrecciano le une nelle altre, rendendo difficile qualsiasi generalizzazione. Accanto a film come Salaam Bombay!(1988) di Mira Nair, che denunciano lo sfruttamento dell’infanzia attraverso la raffigurazione di bambini dediti a traffici illeciti o alla prostituzione, come Il tempo dei cavalli ubriachi di Bahman Ghobadi (2001) o Lavagne di Samira Makhmalbaf (2000) che mettono in scena uno dei popoli più disadattati e vessati della regione, quello curdo, nel quale i ragazzi sono costretti a contrabbandare merci tra l’Iran e l’Iraq per permettere la sopravvivenza di famiglie allo stremo delle condizioni, ce ne sono altri dove il lavoro minorile si rivela momento formativo quasi insostituibile: è il caso di un altro film iraniano Baran di Majid Majidi (2003), dove si racconta la travagliata storia d’amore del diciassettenne Latif per la bella quindicenne Baran, relazione nata in un cantiere edile dove entrambi lavorano come muratori. Lavoro come luogo dove si scoprono i primi sentimenti d’amore, lavoro come luogo dove far crescere e nutrire una singolare relazione padre/figlia: è quanto avviene in La locanda della felicità di Zhang Yimou (2003), storia di un disoccupato cinquantenne che, senza volerlo, deve accudire una ragazzina cieca senza genitori. Prima le affida la sorveglianza di uno strano hotel a ore, poi costruisce una finta sala massaggi per realizzare un suo sogno: diventare una massaggiatrice professionista. Se da una parte la bugia, una volta svelata, allontanerà definitivamente i due personaggi, dall’altra avrà permesso loro di conoscere cosa vuol dire essere un genitore o un figlio. Un altro giovane ragazzo cieco è il protagonista de Il silenzio (1998) di Mohsen Makhmalbaf. Anche in questo caso, l’occupazione per Khorsid non è solo un obbligo o un mero strumento per guadagnare (deve mantenere la madre malata), ma è il mezzo per esprimersi, realizzarsi, sognare, astrarsi da una vita difficile. Egli fa l’accordatore di strumenti musicali, ogni suono che il suo orecchio cattura (sia esso musica umana o naturale) lo traspone in un’altra dimensione, lo fa sentire un tutt’uno con la vita. L’esperienza lavorativa assume, negli ultimi due film citati, una funzione inedita: il massaggio in un caso, la musica nell’altro sono veri e propri occhi per i personaggi, rappresentano il superamento dell’handicap fisico. Se il lavoro minorile può sfociare in sfruttamento, costrizione, occlusione dei sogni, interruzione della crescita (si veda anche Il corridore di Amir Naderi, 1985), in alcuni limitati casi può diventare veicolo di uguaglianza e di superamento delle diversità.

Alcune parziali conclusioni

Ciò che appare evidente ad una prima parziale indagine sull’argomento è che l’eccezionalità delle storie rappresentate – inevitabile se si vuole affascinare uno spettatore – invece di staccarsi dalla “normalità” di un processo, dai suoi aspetti più comuni e verosimili, riesce a tracciarne i confini esterni ed evidenziarne le ambiguità interne. In effetti, il cinema ha portato sullo schermo tanto gli esempi di duro e indigesto sfruttamento minorile, quanto gli esempi di affrancamento e integrazione sociale. Non è necessario confrontare pellicole diverse per evidenziare gli opposti di un fenomeno. Spesso in un solo film trovano spazio entrambe le polarità. Prendiamo ad esempio Non uno di meno (1999) di Zhang Yimou nel quale si racconta la storia di Wei, una ragazzina di 13 anni che fa da supplente in una scuola elementare di campagna. La giovanissima insegnante si accorge, ad un certo punto, che un suo allievo è andato in città a lavorare. Per tener fede alla promessa fatta al maestro (al suo ritorno in classe dovranno esserci tutti i bambini, non uno di meno), Wei abbandona gli altri allievi per andare alla sua ricerca. La situazione paradossale tratteggiata dall’autore è equivoca e profonda al tempo stesso: una tredicenne lavora per evitare che altri alunni abbandonino la scuola e vadano a loro volta a lavorare; insegna senza saper insegnare eppure riesce a tenere a bada la classe e a trasmettere alcuni valori importanti (la caparbietà, l’importanza dello studio, l’altruismo); per cercare un alunno abbandona tutti gli altri; alla fine del racconto ha imparato di più facendo l’insegnante che la studentessa. Più in generale la pellicola esalta il ruolo sociale dell’istruzione pubblica in una maniera decisamente originale: non mostrando mai i momenti della didattica (sostituiti da insegnamenti pratici o da lavori improvvisati) e terminando addirittura con l’intervento risolutore di un programma televisivo (simile a “Chi l’ha visto”) che ritrova il ragazzo scappato in città e finanzia i lavori di ristrutturazione della scuola. Tuttavia la pellicola non termina con un happy end: a rendere ambivalente il finale compare un cartello dove si ricorda che per una scuola ricostruita (con capitali privati) ve ne sono innumerevoli che chiudono, per un ragazzo salvato per caso ve ne sono altri che nessuno considera. Non uno di meno presenta gli aspetti positivi e negativi della vita lavorativa e di quella vita scolastica senza giudizi di merito, in chiave ironica e accondiscendente, generando un cortocircuito narrativo che palesa le contraddizioni della quotidianità. Anche La promesse dei Dardenne si basa su un cortocircuito analogo: il protagonista è insieme sfruttato e sfruttatore, vittima e persecutore. Da una parte aiuta il padre nell’organizzazione di un traffico di immigrati clandestini, dall’altra viene costretto dal genitore a vivere nell’illegalità, col rischio di non avere nessun destino di redenzione e normalità davanti a se. Un altro punto di sintesi rilevante riguarda l’ambientazione dei film. In contesti di diffusa povertà (nel secondo dopoguerra, nei paesi del sud del mondo, in alcuni sobborghi cittadini) l’adolescente vive il lavoro come un dato di fatto, l’unica dimensione possibile (spesso la scuola è preclusa in partenza, non c’è bisogno di abbandonarla) e all’interno di questa dimensione può verificarsi ogni possibile soluzione: dalla speculazione alla realizzazione di sé, dall’alienazione o dalla perdita delle aspirazioni alla materializzazione dei sogni e dei desideri, dall’integrazione sociale all’esclusione, ecc. Il lavoro non è una scelta, anzi spesso è un punto di arrivo che necessariamente deve essere raggiunto il prima possibile, poco importa l’età. Si pensi ai due film noti di Marco RisiMery per sempre e Ragazzi fuori– che descrivono la vita di alcuni ragazzi di Palermo, dentro e fuori dal carcere: per loro l’occupazione è un miraggio, il loro percorso è scritto, va dalla microcriminalità al crimine organizzato, chi prova a uscire dalla traccia segnata e cerca un posto regolare è destinato allo scacco. Appena si passa ad ambientazioni contemporanee e a contesti più ricchi, il lavoro minorile entra in un cono d’ombra di rappresentazione. È indicativo che non sia stato citato, nel corso dell’articolo, alcun film americano. I film targati Hollywood che cercano di raccontare l’adolescenza hanno ambientazioni rigide e cristallizzate: solitamente la scuola o il mondo della criminalità. Altri contesti di crescita non vengono considerati, quando l’adolescente lavora è destinato a vedersi trascinare in una delle due estremità: Will Hunting – genio ribelle di Gus Van Sant porta sullo schermo un ragazzo che grazie alla sua intelligenza e alla brillante guida di un insegnante abbandona il proprio ruolo di addetto alle pulizie per coltivare la passione per la matematica. In Da morire, dello stesso regista, uno dei tre protagonisti lavora con il padre, prima di farsi coinvolgere in un piano che lo trasformerà in assassino. In Europa, ci sono registi più attenti ai minori che lavorano. Olmi, Dardenne, ma nell’ultimo anno anche Costanza Quatriglio con L’isola e Edoardo Winspeare con Il miracolo. I loro “film di denuncia” non cadono in facili schematismi o in blande proposizioni di luoghi comuni. Ed è questo forse il leitmotiv presente in quasi tutti i film citati, interessante da rimarcare perché risponde alle domande che abbiamo formulato all’inizio dell’articolo. La settima arte può rappresentare un fenomeno così complesso e sfaccettato? Riesce ad evitare gli stereotipi che solitamente lo circonfondono? In attesa di analisi più approfondite e sistematiche si può abbozzare una risposta, affermativa.

di Marco Dalla Gassa - (Questioni e documenti n. 30, 2004, pp. 48-55)