Vito e gli altri

di Antonio Capuano

(Italia, 1991)

Sinossi

A Napoli, la notte di capodanno, Vito, dodici anni, resta solo: suo padre ha ucciso tutti gli altri membri della famiglia, decidendo poi di costituirsi alla polizia. Vito va a vivere, così, da zia Rosetta. Il marito di quest’ultima fabbrica fuochi d’artificio, ma non riesce a mantenere la famiglia e la donna è costretta a spacciare servendosi della figlia e di Vito. Quest’ultimo, insieme agli amici, spende le sue giornate rubando, taglieggiando i piccoli commercianti del quartiere, prostituendosi, finché non viene arrestato mentre sta consegnando una partita di droga. Condannato a sette mesi di riformatorio, deve confrontarsi con compagni di cella più grandi che lo seviziano e abusano sessualmente di lui. Zia Rosetta, nel frattempo, ha trovato un avvocato: questi riesce a farlo scarcerare e inoltra una richiesta di risarcimento, sostenendo l’illegittimità dell’arresto. Sempre più sicuro di sé, consapevole dell’immunità di cui gode di fronte alla legge avendo meno di quattordici anni, ma ossessionato da incubi notturni che lo riportano all’esperienza del correzionale, Vito continua l’apprendistato da delinquente fino a quando viene reclutato come killer dalla camorra.

Analisi

Film “difficile”, tanto per le tematiche affrontate quanto per lo stile narrativo adottato dal regista, Vito e gli altri è tuttavia un’opera che ci restituisce il senso di una realtà che, troppe volte descritta attraverso forme di racconto tradizionali, è stata neutralizzata della sua drammatica virulenza. Capuano, in effetti, mostrandoci la carneficina compiuta dal padre di Vito senza fornire alcuna spiegazione, nessuna causa che motivi un gesto così eclatante, fin dalla prima inquadratura si libera da qualsiasi obbligo narrativo verso il pubblico, rinuncia a una raffigurazione tradizionale, iniziando ad accumulare – apparentemente senza un ordine preciso – una serie di episodi e di testimonianze che riescono a trasmetterci il senso di smarrimento del piccolo protagonista meglio di una storia. Così, il mondo di Vito può rivelarsi in tutto il suo squallore grazie a una serie di situazioni che scandiscono la sua cruenta esistenza quotidiana: piccoli furti, scippi, liti furibonde in famiglia, momenti di solitudine o di euforia con gli amici, fughe dalla realtà attraverso sequenze oniriche che spesso si trasformano in incubi, il tutto per mezzo di una rappresentazione secca, asciutta, che risolve ogni singolo evento in inquadrature essenziali, in movimenti della macchina da presa esemplari per la capacità che hanno di sintetizzare ogni situazione con cinica imperturbabilità. La presenza dello schermo televisivo, che spesso invade lo spazio delle inquadrature fino a coincidervi, testimonia ossessivamente l’impossibilità della comunicazione verbale tra i membri della famiglia del bambino, costantemente ipnotizzati dai vuoti messaggi della pubblicità, dalle telenovele, dai programmi di più ampio e basso consumo. Altra presenza costante è quella dei videogame, quasi una palestra virtuale della violenza che accompagna quotidianamente l’esistenza di Vito, e che troverà, alla fine del film, la sua tragica realizzazione pratica quando il ragazzino diverrà un killer al soldo della camorra. Al succedersi degli eventi che vedono Vito coinvolto nella lotta quotidiana per una sopravvivenza che non è motivata da necessità concrete, ma dal bisogno di un consumo fine a se stesso (e che ha, per questo motivo, le caratteristiche di una corsa verso un baratro di angosciante solitudine), si alternano le confessioni o, meglio, le dichiarazioni dei ragazzini che, seduti a turno su una sedia in mezzo alla strada, di fronte alla macchina da presa parlano allo spettatore di quelli che per loro sono i veri valori, gli obbiettivi da raggiungere. È una sorta di decalogo che ci fa capire come questi bambini dettino autonomamente le proprie regole del gioco – un gioco che, tragicamente, coincide già con la vita – presi nelle maglie di un meccanismo violento all’interno del quale reale e immaginario, finzione degli schermi che insistentemente invadono la quotidianità e realtà degradata nella quale essi vivono, si sovrappongono. Capuano, insomma, gira questo suo primo lungometraggio all’insegna di una sgradevolezza estetica prima ancora che tematica, adottando come traccia narrativa una secca frammentarietà che ci impedisce di adagiarci sulle nostre certezze di spettatori tanto cinematografici quanto televisivi. Non trattandosi né di un documento o di un’inchiesta, né di una fiction, a fatica il film si lascia metabolizzare sia dalla nostra parte razionale, che cerca il dato sociologico, la statistica cui appigliarsi, sia dai nostri sentimenti, dalle nostre emozioni, continuamente negati, contraddetti dalla costruzione del film. Un film “scomodo”, dunque, ma che sicuramente rimane.