La stanza di Cloe

di Rolf de Heer

(Australia/Italia/Francia, 1996)

Sinossi

Cloe ha sette anni e da un po’ di tempo si rifiuta di parlare per protestare contro i continui litigi dei suoi genitori che stanno progressivamente deteriorando la vita della famiglia. Il suo mutismo è totale, ma solo in casa: di giorno Cloe continua ad andare a scuola

e quando torna a casa si chiude nella sua stanza dove vive in un mondo tutto suo fatto di ricordi, desideri, fantasie, paure. I genitori non danno molto peso a questi silenzi (imputandoli a una fase critica della sua crescita destinata a non durare), la coccolano, giocano e sono affettuosi con lei ma, allo stesso tempo, continuano a discutere e a scontrarsi senza riuscire a trovare un accordo che dia serenità a tutti. Quando è sola Cloe ricorda i suoi primi anni di vita quando i genitori erano sereni e la abbracciavano continuamente, pensa che desidererebbe avere un cane, che vorrebbe vivere in campagna e, attraverso il disegno esprime il suo bisogno di una vita tranquilla, a dispetto dei ripetuti litigi che portano la coppia sull’orlo del divorzio. Appresa la notizia della separazione, Cloe si rinchiude in un armadio dove resta nascosta per un po’: spaventati dalla reazione della figlia i genitori decidono di discutere più pacatamente la situazione e giungono alla decisione di separarsi per un periodo di tempo limitato affinché si interrompa il circolo vizioso di accuse reciproche del quale sono prigionieri. Il momentaneo allontanamento dei coniugi non servirà a ridare un’immediata serenità alla famiglia, ma Cloe, poco a poco, ricomincerà ad esprimersi (in parte attraverso le parole, in parte attraverso i disegni)contribuendo in parte a far riflettere il padre e la madre sui loro errori.

PRESENTAZIONE CRITICA

INTRODUZIONE AL FILM Gli inganni della parola Il regista australiano di origine olandese Rolf De Heer si è sempre interessato a stori e con protagonisti affetti da disabilità fisiche o da disturbi mentali: si pensi a Balla la mia canzone nel quale una donna tetraplegica rivendicava il proprio diritto a una vita normale (anche dal punto di vista sessuale) o a Bad Boy Bubby, il cui giovane  protagonista, segregato per anni in uno scantinato dalla propria madre, partiva alla scoperta del mondo. Anche la piccola Cloe soffre di un evidente disturbo (si rifiuta di parlare) e, malgrado le apparenze, proprio con il personaggio di Bubby ha non pochi punti in comune, a incominciare dal nucleo centrale del suo disagio che è da ricercarsi nella famiglia, fino all’individuazione di quel meccanismo “perverso” che si rivela essere in molte situazioni l’uso del linguaggio, la comunicazione verbale, qui interrotta volontariamente dalla bambina, lì capovolto dal giovane disturbato che, finalmente “venuto alla luce” dopo trentacinque anni di prigionia, decideva di andarsene in giro ingenuamente e impunemente a pronunciare verità indicibili seminando il panico tra la gente cosiddetta normale. Nel caso di Cloe tutto ciò non è possibile, anzi sì, ovvero lo è ma solo in virtù di un meccanismo narrativo prettamente cinematografico che consente allo stesso tempo di articolare il racconto su più piani: quello reale dei genitori che parlano molto, tentano in tutti i modi di far parlare Cloe e continuano più o meno indisturbati a discutere e litigare; quello interiore della bambina che ha rinunciato a parlare (ma non a riflettere su quanto accade attorno a sé) chiudendosi in un mondo di ricordi, fantasie, pensieri ed emozioni delimitato fisicamente dalle quattro mura della sua stanza da letto ma non chiuso ermeticamente agli stimoli esterni. Il grande merito di La stanza di Cloe sta proprio nel coltivare caparbiamente, coerentemente e fino in fondo  questa dicotomia insanabile tra mondo adulto, fondato soprattutto su un uso illusorio del linguaggio, alla ricerca di continui compromessi e universo infantile fatto di esigenze e desideri irrinunciabili e assoluti, bisognoso di risposte certe e senza appello. Per fare questo de Heer rimuove dal luogo dell’azione qualsiasi elemento superfluo, lasciando in campo solo ciò che è necessario, ovvero i tre protagonisti principali (Cloe, il padre e la madre) all’interno di un unico ambiente, la stanza di Cloe, concedendosi solo qualche digressione dal presente (dal quale è cancellata ogni volontà narrativa forte a favore di un racconto frammentario ma solo apparentemente disorganico) in occasione dei ricordi e delle visioni utopiche della bambina. Una sorta di palcoscenico dotato di porte per le entrate e uscite di scena sul quale agiscono, né più né meno che in teatro, dei personaggi (i genitori) i cui ruoli sono drammaticamente preordinati, il cui vano e scomposto agitarsi stride con il bisogno di chiarezza ed efficacia della bambina. A volte, certo, i simbolismi possono suonare scontati: i pesci, ovviamente muti, con i quali la bambina parla nelle prime sequenze del proprio rifiuto di parlare; le bambole del tipo Barbie con cui simula un matrimonio sereno, diverso da quello dei genitori; i vetri colorati di una delle porte attraverso i quali osserva i genitori litigare, sotto una luce blu più fredda, o rappacificarsi sotto una luce arancione più calda. Tuttavia il film, al di là di qualche ingenuità ed un finale forse eccessivamente ottimista e repentino, La stanza di Cloe rimane un tentativo intelligente di dare voce a ai pensieri inaspettatamente profondi di chi pensa che le parole da sole non possano bastare. IL RUOLO DEL MINORE E LA SUA RAPPRESENTAZIONE Silenzi eloquenti I meriti di La stanza di Cloe, tuttavia, non si fermano alla sola capacità di ribadire il bisogno da parte dei bambini di una dimensione stabile e concreta soprattutto da parte di quelle figure di riferimento essenziali e irrinunciabili che sono i genitori. Il suo maggior pregio è di fare tutto ciò riuscendo anche a mettere in evidenza – forse ingenuamente, ma con innegabile efficacia – le reazioni psicologiche dei bambini di fronte a processi di disgregazione del nucleo familiare. Cloe, in fondo, non fa niente di più che portare alle estreme conseguenze quel rifiuto di comunicare dietro il quale si trincerano tutti i bambini che sono in condizione di difficoltà, il regredire ad uno stato pre-infantile per chiedere aiuto attirando l’attenzione dei genitori. Cloe è ancora molto giovane (ha circa sette anni) ma ricorda già con nostalgia la propria condizione di pochi anni prima, riconducendo l’unità della famiglia e l’armonia tra il padre e la madre ad una serie di possibilità (quella di dormire nel letto dei suoi,  l’abbraccio affettuoso di entrambi i genitori) che ora non fanno più parte della sua vita di “bambina grande”. Anche il suo rifugiarsi nella stanza è una regressione allo stato uterino che culmina nella decisione di nascondersi nell’armadio e, successivamente, di rivelare la propria presenza ai genitori riprendendo a parlare per venire letteralmente alla luce una seconda volta. Le parole dividono, afferma Cloe ad un tratto, ribadendo la propria sfiducia nei confronti della comunicazione verbale: attraverso le parole si può raggiungere un accordo, un equilibrio, mentre invece ciò che lei ricerca è una forma di “unione nella totalità” che non ammette compromessi. Di qui il tentativo di riconquistare una condizione in cui i gesti e gli atti valgano più di quelle parole ora considerate dagli adulti l’unico canale (o quasi) attraverso il quale comunicare. In più occasioni, infatti, ciò che Cloe cerca più ardentemente è un contatto fisico con i genitori (essere coccolata dalla madre, arrampicarsi e stare in equilibrio sulle spalle del padre, ritornare a dormire nel letto matrimoniale), come a ribadire l’inutilità dei discorsi, delle discussioni e soprattutto dei litigi di fronte all’esigenza di forme di comunicazione che non lascino spazio ad equivoci. Due mondi inconciliabili, dunque? Non del tutto. È già emersa l’importanza delle immagini nella vita della bambina: la memoria di quella condizione positiva vissuta nella primissima infanzia e ora andata perduta è affidata innanzitutto a una serie di immagini (dei flashback dal vago sapore onirico, nel film), i suoi desideri e il piacere di fantasticare ad altre sequenze, le uniche del film che si aprono verso uno spazio esterno a quello domestico (la tanto agognata campagna). Sarà proprio attraverso delle immagini – questa volta disegnate – che Cloe deciderà di comunicare con i genitori per segnalare loro i motivi del suo disagio: immagini ingenue ma essenziali, capaci di illustrare desideri (la vita all’aria aperta), di segnalare la consapevolezza della propria condizione (l’assenza di un futuro al di fuori dell’unità della famiglia), di esporre i propri punti di vista (l’impossibilità di comunicare di fronte a un vero e proprio “muro di parole”). Quanto siano inconciliabili i discorsi dei genitori (che la voce fuori campo della piccola puntualmente anticipa o stigmatizza, sottolineandone ironicamente l’inutilità) con il suo mondo fatto di colori, immagini e sensazioni, lo testimonia l’atteggiamento di totale chiusura verso le parole del padre e della madre sintetizzato dagli scarabocchi che Cloe traccia con un gessetto nero su dei fogli mentre i due tentano di convincerla che, in fondo, il divorzio non sarà poi così negativo. Attraverso il disegno, estensione diretta della sua immaginazione la piccola Cloe sembra ribadire concretamente l’invito rivolto (mentalmente, è ovvio) ai suoi genitori, ovvero di “avere più fantasia”, trovare soluzioni diverse ai propri problemi al di là delle parole. Fabrizio Colamartino  

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