Mosquito Coast

2009/07/20 Type of resource Film cards Topics Environment Titles Rassegne filmografiche

di Peter Weir

(Usa, 1986)

Sinossi

Los Angeles. Allie Fox, piccolo inventore incompreso, è stanco di vedere il suo Paese in preda ad un consumismo smisurato e senza più nessuna qualità morale ed ecologica. L’unica soluzione che ritiene possibile è la fuga, insieme alla moglie e ai quattro figli, in un ambiente incontaminato e primordiale. La famiglia Fox si imbarca così su un mercantile diretto verso la ‘Mosquito Coast’, in un luogo che non si trova neanche nelle cartine geografiche. Arrivato sul posto, acquista un villaggio abbandonato e aiutato dalla moglie, dal figlio maggiore Charlie, appena adolescente, e da qualche volonteroso indigeno, lo trasforma in breve tempo in un meraviglioso villaggio robinsoniano. Piccole invenzioni rendono la vita più comoda, tanto che l’iniziale nostalgia per l’America si affievolisce. Tuttavia uno spirito d’onnipotenza spinge Fox oltre i limiti: egli costruisce un’enorme macchina per fabbricare ghiaccio ottenendo un effetto controproducente. Quando tre criminali s’impossessano del villaggio, l’unico modo per eliminarli è rinchiuderli nella ghiacciaia, sennonché i tre per liberarsi fanno scoppiare il macchinario, distruggendo il villaggio e inquinando il fiume vicino. Andando contro il parere dei famigliari che vorrebbero tornare a casa, Fox compie un altro tentativo di vita selvaggia sulle rive della ‘Mosquita’, ma l’alta marea spazza via la capanna da poco costruita. Costretto a vivere in uno zatterone, l’uomo non si arrende ad un ritorno alla ‘civiltà’. Solo il colpo di fucile di un missionario, con cui Fox aveva avuto diverbi e litigi, e il conseguente ferimento/agonia permetteranno alla famiglia di riprendere la via verso l’occidente.

Analisi

Considerato unanimemente tra i film ‘minori’ di Peter Weir, per la complessità e la sconclusionatezza delle tesi esposte, Mosquito Coast conferma tuttavia molte delle ossessioni care al regista australiano, le quali pur non ottenendo in questa pellicola una trattazione del tutto convincente, rimangono in ogni caso interessanti e assolutamente originali, all’interno della produzione hollywoodiana, nella quale l’australiano Weir è inserito a pieno titolo. Il cinema di Weir si polarizza, infatti, – in uno schema per comodità semplicistico – attorno a due tematiche principali: da una parte lo scontro/incontro tra la civiltà moderna occidentale e forme di cultura diverse o primitive, tra il modello dell’uomo ‘faber’ e altri stili di vita completamente diversi da questo; dall’altra il rapporto lacerante che vivono gli adolescenti indecisi tra fascino per determinati esempi di vita adulta (i quali come in questo caso risultano devianti e occludenti) e spinta verso l’autonomia e verso un personale e unico percorso di crescita. Se su un versante si potrebbero citare L’ultima onda, Un anno vissuto pericolosamente e The Truman Show, per l’altro il riferimento è per Picnic at Hanging rock, Gli anni spezzati, L’attimo fuggente. Solo due film dell’itinerario weiriano (per ora) hanno cercato di trovare una sintesi tra queste due tensioni. Uno è Witness il testimone, l’altro è per l’appunto Mosquito coast. La pellicola in questione, a differenza di Witness il testimone che si muove all’interno delle regole del thriller, abbandona ogni riferimento ai generi cinematografici – si pensi all’utilizzo antitetico di Harrison Ford, il quale, identificato dal pubblico come Indiana Jones, accetta un ruolo che ne scardina gli aspetti peculiari che gli aveva assegnato Spielberg – per erigersi intorno alla struttura del film/metafora o del pamphlet. La decisione di scappare dall’America imposta da Allie Fox alla famiglia si richiama in tal modo sia alle teorie del buon selvaggio (“non hanno capito qual’è la vera civiltà” dice Fox al figlio parlando di quegli immigrati sudamericani che avevano lasciato la loro terra per andare in America a raccogliere asparagi) di rousseauiana memoria (cit. Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, 1755) secondo le quali l’uomo primitivo è più felice di quello moderno, sia ad un’illuministica convinzione nelle illimitate capacità dell’uomo tipica del pensiero liberale, ma si risolve, al contrario, in un viaggio di non ritorno. Un viaggio che, abbandonate le contraddizioni del mondo capitalista, non trova un’altra terra d’approdo. Non si può considerare un modello culturale il villaggio costruito da Fox perché non rappresenta un ritorno alla natura (quante sono infatti le comodità consumistiche ricreate da Fox nella foresta?) né uno stato basato sulla democrazia (di fatto ogni sua parola è legge), neppure l’isolamento famigliare proposto nella seconda parte del film, che non a caso viene spazzato via dalla prima bufera, tanto meno l’azione singola di Fox che ormai accecato dal suo sogno finisce per farsi sparare. Quello che sembra voler raccontare il regista australiano in Mosquito Coast è lo smarrimento di chi non trova modelli alternativi a quello capitalista, un discorso che non può essere considerato una sorta di elogio indiretto della società americana. La società moderna è, a dire il vero, descritta, sia nella prima parte del film ambientata in California, sia nella seconda parte dove compare il reverendo Spellgood, in tutti i suoi aspetti più contraddittori e colonialisti. Non si comprenderebbero però le vere intenzioni del ‘saggio’ weiriano se non si considerasse come altro punto nevralgico del film la figura di Charlie, il figlio maggiore di Fox. La pellicola è, infatti, il racconto di un allontanamento ‘edipico’ dal proprio padre e la costruzione di un personale spirito critico. Charlie, voce narrante del racconto e quindi voce riflessiva dello stesso regista, riesce a superare la fascinazione che subisce da un genitore sicuro, intraprendente e decisionista solo con tremenda fatica. Il suo è un percorso lento che non manca di manifestare l’affetto ‘dovuto’ per il genitore, ma che finisce per provocarne involontariamente la morte, quando insieme alla madre si ribella alla sua pazzia. Vero motore della storia è dunque l’invito a formarsi una coscienza personale, preoccupazione questa che sembra stare molto a cuore al regista australiano se successivamente ne farà il centro di un altro suo film, L’attimo fuggente. Se in quel caso un insegnante indicava la giusta via ai propri studenti, questa volta il tragitto di formazione è per Charlie una costruzione personale, solitaria, faticosa, che andrà a buon fine solo quando il genitore sarà eliminato. Rimane, pur tuttavia, il fatto che una volta costruite le basi per l’autonomia, l’individuo si trova di fronte a modelli sociali manchevoli. Ma di fronte a questa constatazione, l’unica cosa da non fare è fuggire. Marco Dalla Gassa  

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