Il Grinta

21/02/2011 Tipo di risorsa Schede film Temi Adolescenza Titoli Rassegne filmografiche

di Ethan e Joel Coen

(USA, 2011)

 

Possono due film tratti dallo stesso romanzo, con la trama pressoché identica, manifestare due modi diversi di concepire il cinema (di genere) e il suo ruolo nel contesto sociale e culturale in cui è inserito? La risposta è ovviamente sì e il caso de Il Grinta non è che l’ultima di una lunga serie di conferme. 

Come molti sanno, la versione dei fratelli Coen, in lizza per dieci statuette alla prossima serata degli Oscar, è il remake di un omonimo film di Henry Hathaway del 1969 con protagonista l’icona del western per eccellenza, ovvero John Wayne. Entrambi i film sono tratti dal romanzo True Grit di Charles Portis, entrambi portano in scena le gesta di Mattie, una ragazza di quattordici anni che ha deciso di assoldare un vicesceriffo – Il Grinta – per catturare un criminale che ha ucciso suo padre, entrambi affidano la parte principale del plot al viaggio dei due protagonisti, accompagnati da un Texas Ranger, in territorio indiano dove si suppone si sia nascosto il ricercato. Anche se il resto della trama è pressoché identico, tra i due film c’è poco in comune. Nell’opera di Hathaway, esponente di un’idea di western cruda, rude, violenta ma anche sincera e priva di sofisticazioni, la presenza un po’ imbolsita ma già mitizzata di John Wayne nella parte di Rooster “il Grinta” Cogburn serve, infatti, per raccontare il tramonto di un genere che, alla fine degli anni Sessanta, appare sempre più anacronistico nel panorama cinematografico del tempo perché incapace di raccontare, tranne alcune eccezioni, una società in fermento e un conflitto generazionale sempre più acceso. Letto come frutto di quella stagione di conflitti, Il Grinta del 1969 è insieme un inno all’incontro, al dialogo generazionale (e alla dimensione formativa che ivi vi soggiace) e uno dei canti di addio alla frontiera, ai valori condivisi di un intero popolo, sempre più separato da esigenze e bisogni centrifughi. Una lettura che si fonda sulla scelta di affiancare all’eroe per eccellenza, The Duke, una ragazzina di quattordici anni che rappresenta, come ci ricorda Giampiero Frasca in una scheda del film «la perfetta immagine di un mondo nuovo che sta inesorabilmente fagocitando il vecchio West e le sue figure stagionate e imbolsite [...]. La ragazza […] si premura di stringere accordi con gli eroi del genere soltanto previo contratto stipulato di suo pugno e firmato dal contraente di turno. In un mondo che sta cambiando non conta più niente la parola data, ma soltanto la firma leggibile su un pezzo di carta». Nel finale poi la dimensione crepuscolare, che è strettamente legata all’avvento della modernità e dell’imprenditoria individuale, si fa ancora più evidente quando Mattie «programma le future posizioni delle tombe nel cimitero di famiglia […] e si premura di trovare una piccola fossa anche per il grande John Wayne, il quale ringrazia commosso e sgattaiola via con il suo cavallo per perdersi nell’orizzonte». 

Nella versione dei Coen, spiace dirlo, questo stretto legame con il presente non si coglie. Il film è preciso, puntuale, formalmente ineccepibile, sicuramente più rispettoso del romanzo da cui è tratto (diversi dialoghi tra i personaggi sono presi – pari pari – dalle pagine del libro), ma annoda i suoi temi e la sua narrazione alla tradizione della letteratura di avventura per l’infanzia piuttosto che a quella forse più interessante e attraente del neo-western. Siamo più vicini insomma a Alice in Wonderland di Tim Burton o ancor meglio all’Oliver Twist di Roman Polanski (ma senza percorso di formazione e crescita) che non a Gli spietati di Clint Eastwood o a Le tre sepolture di Tommy Lee Jones o, ancora, ai più recenti L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik e Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt, veri e propri esempi di rinascita linguistica del genere. Il paesaggio, la scrittura delle regole sociali, l’affermazione di un nuovo mondo, le dicotomie tipiche del genere (come la dialettica tra natura e cultura, tra l’Io e l’Altro, tra modernità e stato brado) sono svuotate di senso quando non del tutto assenti.

Non è un caso se l’inizio e la fine del film di Hathaway vengono tagliati o rappresentati in maniera per così dire attutita e priva di carica simbolica. Il film inizia quando l’uccisione del padre di Mattie è già avvenuta. Si vede solo il suo corpo a terra, sotto una tenue nevicata, accasciato sull’uscio di casa. Sono le parole di Mattie adulta a raccontarci ciò che è accaduto, spogliando da una possibile rappresentazione visiva l’evento che innesca la caccia all’uomo e il desiderio di vendetta della ragazzina e, soprattutto, depauperandone la carica retorica. Anche la disposizione delle tombe di famiglia della protagonista ormai diventata adulta sfugge all’immagine cinematografica. Ciò che vediamo è un appuntamento mancato tra la donna e il vecchio sceriffo (morto da pochi giorni), la secca decisione della prima di prelevare la bara del secondo e di trasportarla nei propri possedimenti. Nessuna malinconia o coscienza di un tempo che sta scadendo informa quest’ultima parte del film, né l’idea di un senso più spirituale e formativo di quel viaggio. Anche la relazione tra la violenza insita nella società e le motivazioni all’azione individuale, ben presente nella prima parte dell’opera di Hathaway (in particolare nella scena delle impiccagioni), è quasi assente nel lavoro dei Coen come se la rappresaglia che si appresta a mettere in atto Mattie, Rooster “il Grinta” Cogburn e LaBoeuf il Texas Ranger che li accompagna, sia più un pretesto per far incominciare il viaggio che non il manifestarsi di un bisogno di giustizia da affermare. La dimensione valoriale, l’incarnazione di una serie di codici nei personaggi è pallida o impalpabile. D’altronde lo stesso Jeff Bridges, nella parte de Il Grinta non sembra cercare alcun confronto con il suo scomodo e invadente predecessore e diventa ben presto una sorta di Virgilio ubriaco e particolarmente loquace che non ha una chiara strada da percorrere, né un progetto di cattura da realizzare.

È, forse, proprio la mancanza di vere e proprie coordinate del viaggio nel territorio indiano, un girare a vuoto da parte di personaggi senza giurisdizione, un discutere e configgere tra loro che non produce alcun cambiamento identitario, l’evaporarsi di qualsiasi dialettica tra gli spazi della casa (e della civiltà) e quella del west (e della natura incontaminata), a rendere Il grinta un esercizio di stile e di buon racconto letterario e poco più. Anche il ruolo di Mattie da questo punto di vista appare meno interessante di quanto si sarebbe potuto prevedere. La ragazzina è decisa, sa trattare e estorcere un buon contratto anche allo più scafato tra i mercanti del west, non si lascia abbattere, non rinuncia al proprio obbiettivo nemmeno quando viene rapita e finisce direttamente nelle mani dell’assassino di suo padre. Eppure non ha ethos, non vive alcuna elaborazione del lutto (si veda la scena dall’impresario di pompe funebri), non mette in discussione l’esistente e soprattutto non incarna un cambiamento, né sottoforma di progresso individualista e capitalista che avanza, né sottoforma di una serie di diritti (alla genitorialità, alla giustizia, alla parità di rapporti tra generi) che prima o poi anche la società selvaggia del lontano west dovrà prendere in considerazione.

Svetta una sequenza veramente straordinaria: quella della corsa, prima a cavallo e poi a piedi, del vicesceriffo verso la civiltà, per riuscire a portare Maggie ferita da un morso di un serpente da un medico che la curi. La sequenza, tutta girata in notturna, arresta per un momento il flusso degli eventi e sembra ricercare finalmente un rapporto intimo, quasi carnale, tra la ragazzina e quello che avrebbe potuto essere suo padre. Qui l’uso dei green screen, il montaggio alternato e a pezzi brevi tra il volto della protagonista, quello dello sceriffo e quello del cavallo ormai stanco, la luce bluastra della notte, la separazione definitiva tra paesaggio e personaggi, la musica calzante, consente ai Coen di raggiunge finalmente quella forma di classicità che prima di allora avevano vanamente inseguito attraverso le regole della trasparenza narrativa e che invece avrebbero dovuto ricercare, anche altrove, in quelle soluzioni espressive di intensificazione emotiva e linguistica di cui la vecchia Hollywood, nei western e in altri generi, era straordinariamente capace. Una sequenza che non consente però al film di riscattarsi del tutto, e comunque non irradia di una luce convincente il personaggio di Mattie che, non a caso, nella sequenza più bella del film, è priva di sensi e impossibilitata ad agire.

Marco Dalla Gassa

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