La siciliana ribelle

di Marco Amenta

Chi era Rita Atria? Giovani e giovanissimi certamente lo ignorano, ma anche la stragrande maggioranza degli adulti probabilmente faticherebbe a identificare in questo nome quello di uno dei tanti eroi civili che il nostro Paese tende a dimenticare con sorprendente facilità.

Sono davvero pochi coloro che conservano il ricordo di questa siciliana balzata giovanissima agli onori delle cronache perché inserita ancora diciassettenne dal giudice Paolo Borsellino nel programma di protezione dei testimoni del processo alla cosca Accardo di Partanna e morta suicida alcuni mesi dopo l’attentato di via D’Amelio nel quale il magistrato perse la vita insieme agli uomini della sua scorta. Una vicenda passata sotto silenzio, o quasi, una notizia tra le tante della cronaca nera di un periodo buio della nostra storia recente, quello degli attentati eclatanti – contro uomini delle istituzioni ma anche verso luoghi dall’alto valore storico-culturale – organizzati dalla mafia per tentare di sovvertire l’ordine democratico.

Eppure la storia di Rita Atria è altrettanto degna e forse ancor più emblematica di quella, per esempio, di Peppino Impastato – anche lui vittima della violenza mafiosa – la cui figura è stata descritta nel film I cento passi di MarcoTullio Giordana.
Figlia di un piccolo boss appartenente alla mafia vecchio stampo, ancora basata su valori come l’onore e la difesa dei deboli ma incapace di rispondere alla violenza scatenata dagli interessi generati dal traffico di droga, Rita cresce in un ambiente più che mai alieno dai concetti di legge e di giustizia. Rimasta orfana di padre ancora bambina, vive nell’ombra di un mito paterno quanto mai ingombrante e di una visione della famiglia arcaica che vede le donne occupare l’ultimo gradino della scala gerarchica.
Davvero difficile immaginare per la ragazza, figlia e sorella di due mafiosi, un futuro da collaboratrice di giustizia e, ancora meno, da ferma oppositrice di quei principi mafiosi che ne avevano segnato l’infanzia. Se in un primo momento si rivolge alla magistratura solo per vendicare la morte dei suoi familiari, poco a poco Rita comprende come l’onorabilità, il rispetto e l’omertà siano falsi valori dietro ai quali si nascondono dinamiche di violenza e sopraffazione.
Ancora adolescente, la protagonista si ritrova calata in una condizione che mette a dura prova la sua identità, apparentemente granitica, di futura donna d’onore: l’anonimato e la solitudine forzata cui è costretta dal programma di protezione scavano nella sua personalità, facendone emergere tutte le contraddizioni. Grazie ai suoi diari, fedele ricostruzione di un decennio di trame mafiose in provincia di Palermo e non solo, Borsellino porta alla sbarra molti “uomini d’onore” ma l’attentato di via D’Amelio nel 1992 mette bruscamente fine alla vicenda e, pochi giorni dopo, alla vita della stessa Rita, suicidatasi perché ormai priva anche di quel padre putativo che le aveva fatto comprendere la differenza tra vendetta e giustizia.

La storia di Rita Atria è lo spunto dal quale il regista Marco Amenta è partito per la sceneggiatura di La siciliana ribelle, in uscita nelle sale in questi giorni dopo la presentazione alla scorsa edizione del Festival internazionale del film di Roma.
Nel film la forza di questo personaggio affiora a tratti con grande intensità, malgrado le semplificazioni cui va incontro ogni vicenda che debba passare dalla realtà della cronaca al racconto per immagini. Amenta non arriva per caso e improvvisamente a questo risultato: è lo stesso autore del documentario – quasi omonimo, ma il passaggio dell’articolo del titolo dalla forma indeterminativa a quella determinativa è indicativo della volontà di cambiare totalmente registro – Diario di una siciliana ribelle (distribuito dall’associazione Documè) che ricostruiva con sufficiente fedeltà gli ultimi mesi di vita della ragazza attraverso documenti privati (tra i quali anche alcuni filmini di famiglia), interviste a chi le fu vicino in quel periodo e, soprattutto, attraverso brani dei suoi diari, gli stessi che consentirono a Borsellino di istruire il processo.
Un percorso graduale che, tuttavia, soprattutto nella parte dedicata all’infanzia della protagonista, non ha messo il film al riparo da una rappresentazione del mondo mafioso sostanzialmente di maniera. Un po’ più misurata (anche se non del tutto priva di ingenuità) la descrizione dell’inserimento della ragazza nel programma di protezione, i cambiamenti imposti al suo aspetto per renderla irriconoscibile, dunque anche alla sua personalità, quella di un’adolescente ancora fragile combattuta tra la fedeltà alla propria famiglia – ma, soprattutto, al proprio passato e ai propri ricordi – e un futuro senza memoria, privo di una vera identità, retto solo dall’adesione a valori estranei alla sua cultura d’origine e sostanzialmente astratti come la giustizia e il rispetto della legge.

La siciliana ribelle esce in sala accompagnato anche da una coda di polemiche, incentrate sulla reale capacità del film di restituire con fedeltà l’immagine della protagonista e la sua travagliata vicenda, tra l’autore e l’associazione che nel nome di Rita Atria porta avanti iniziative volte a informare e sensibilizzare la gente sui fenomeni mafiosi. È ovvio che il passaggio di questo personaggio dalla realtà alla finzione dello schermo contribuirà forse a rendere un po’ più popolare una vicenda “minore” della nostra storia recente, ma di certo non gioverà a tratteggiarne con sufficiente forza le sfumature profonde del carattere, la sua combattuta identità. Un’identità che, se a distanza di molti anni è ancora al centro di aspre contese, proprio come si addice ai grandi personaggi tragici, forse sarebbe ora che accedesse a un dimensione di memoria condivisa, possibilmente da tutti.

Fabrizio Colamartino

 

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