Hugo Cabret [1]
regia di Martin Scorsese
(USA, 2012)
Tratto dal libro per ragazzi La straordinaria invenzione di Hugo Cabret (Mondadori) di Brian Selznick (nipote del celebre produttore hollywoodiano), Hugo Cabret è un'avventura fiabesca pensata innanzi tutto per un pubblico giovane e giovanissimo. Narra la storia di un piccolo orfano che vive all'interno di una stazione ferroviaria di Parigi, minacciato da un ispettore che non vede l'ora di spedirlo in orfanotrofio, intenzionato a far funzionare un vecchio automa, unico ricordo del padre orologiaio morto in un incendio qualche mese prima. Il tredicenne, per aggiustare il meccanismo interno del robot, ruba utensili e vari meccanismi a un giocattolaio burbero e triste che lavora lì vicino, finendo coinvolto in un'avventura che mescola cinema, letteratura, sogni a occhi aperti, viaggi sulla luna, pericolosi inseguimenti tra la folla o in cima a una torre orologiaia. La storia, come ogni favola, ha un plot elementare, a tratti prevedibile, a tratti incredibile, con una morale dichiarata a chiare lettere da Hugo alla sua amica Isabel: così come gli ingranaggi di un orologio sono stati creati con una funzione ben precisa, ovvero far funzionare il meccanismo interno che segna il tempo, nessuno è di troppo, nessuno è di meno, anche gli esseri umani nascono per una ragione ben precisa, magari non immediatamente comprensibile, ma che rende indispensabile la loro presenza nel mondo, compresa quindi quella degli orfani e delle persone sole. La favola, nevvero, ha molti elementi che la conducono verso la classicità: Hugo e Isabel, i due protagonisti preadolescenti, sono orfani come gli eroi di Twain o di Dickens; la Parigi del 1931, anno e luogo di ambientazione del libro e del film, ricorda la Londra notturna e innevata della prima rivoluzione industriale con un'altra sorta di maestoso Big Ben a issarsi sulla città, pronto a ospitare un nuovo Peter Pan e una nuova Wendy; si aggiunga che a minacciare le avventure dei due piccoli protagonisti c'è un ispettore ferroviario che ricorda i gendarmi di Pinocchio, ma anche - alla lontana - il poliziotto de Il monello [6] di Chaplin (tanto che nei tempi liberi corteggerà una fioraia come lo Charlot di Luci della città), mentre ad aiutarli si staglia un anziano libraio che dispensa buoni consigli e buona letteratura per ragazzi. Altrettanto numerosi - e capaci di innervare letture seconde e terze - sono gli aspetti (post)moderni della pellicola, primo fra tutti quel sistema di interconnessioni - così simile alla rete viaria di Parigi ripresa da numerose inquadrature aeree e panoramiche nel corso del film - che congiunge tra loro vecchi film, romanzi di formazione, documentari bellici, teorie sociali, fascinazioni tecnologiche, rêverie, immaginari da cartolina, ecc... attraverso continue citazioni e fitti riferimenti intertestuali. Sulla scia di esempi come Shrek o Harry Potter, Scorsese miscela sapientemente la tradizione letteraria a quella iconica/visuale, producendosi soprattutto in un grande omaggio ironico e affettuoso alla Settima arte e ai suoi pionieri, i fratelli Lumière e Georges Méliès su tutti. In tal senso, la scelta del 3D per una volta non è dettata solo da calcoli commerciali o da esigenze spettacolari, ma da ragioni in qualche modo ontologiche (così come l'ambientazione ferroviaria, uno dei luoghi simbolo della modernità di fine Ottocento e primi Novecento). Le fantasticherie che un secolo fa creava Méliès grazie a trucchi ottici e cinematografici ora sono ricreate dalla computer graphica e dalla simulazione tridimensionale, dai rendering e dallo shading che non a caso Scorsese usa anche quando ripresenta immagini di repertorio e brani di vecchi film del cinema muto. Resta invariata però l'indispensabilità dell'uomo - quella sua stessa ragione di esistere - che allora come oggi deve infondere vita alle macchine, deve saperle creare, farle girare e poi aggiustarle se si rompono, come fa Hugo con gli orologi della stazione. Deve saper parlare al cuore e all'intelligenza dello spettatore. Quello di Scorsese, in fondo, non è solo un tributo al cinema dello scorso secolo ma è anche un augurio di prosperità per quello del secolo che verrà. Proprio al centro di questo incrocio tra vecchio e nuovo, tra memoria e proiezione verso il futuro, tra evento sociale ed esperienza personale, si stagliano, fondamentali, le figure dei due ragazzini protagonisti. Di Hugo spiccano gli occhi azzurri e lo sguardo che egli lancia verso l'atrio della stazione, nascosto dietro i quadranti degli orologi, in una posizione voyeuristica propria degli spettatori in sala. Di Isabel spiccano la parlantina sciolta, le letture frequenti, la curiosità e la voglia di scoprire. Sono in altre parole due facce della stessa medaglia cinematografica: l'uno incarna e simboleggia la dimensione ottica e scopica dell'immagine in movimento, la sua forza mostrativa; l'altra invece riproduce la dimensione narrativa della Settima arte, la sua carica romanzesca e drammatica. Insieme risolvono l'enigma dell'automa (che non a caso è fatto della stessa materia delle cineprese e dei proiettori), insieme restituiscono identità e memoria a chi è loro accanto (da papà Georges al professor Tabard, dall'ispettore ferroviario alla fioraia e agli altri personaggi della stazione), insieme confermano che il cinema è strettamente legato al periodo di formazione di ognuno di noi, ovvero al processo di acquisizione di uno sguardo autonomo e personale, alla capacità del singolo di farsi racconto in divenire. Al desiderio e alla paura di diventare grandi.
Marco Dalla Gassa