Caterina va in città

di Paolo Virzì

(ITALIA, 2003)

Sinossi

Caterina Iacovoni, tredici anni, appassionata di musica classica – è una valente corista – si trasferisce a Roma dalla provincia quando suo padre Giancarlo, insegnante di liceo, ottiene una cattedra in una scuola romana. Le aspettative di Giancarlo, docente frustrato e dalle molte ambizioni fallite, sono altissime: la Capitale, per lui, costretto per anni a risiedere in un piccolo centro del viterbese, rappresenta un mondo di possibilità fino ad allora precluse. Per Caterina, pur incuriosita dalla novità, il cambiamento è decisamente traumatico: iscritta in uno dei più prestigiosi licei romani si ritrova in una classe dove dominano due fazioni rivali capeggiate da altrettante coetanee. La sua ingenuità conquista dapprima Margherita, figlia di due intellettuali di sinistra, che la coinvolge in iniziative politiche e culturali ma che, poi, in seguito ad un malinteso, la allontana dal gruppo, e poi Daniela, figlia di un parlamentare di destra, che la introduce nell’ambiente della Roma-bene iniziandola ai suoi rituali (shopping, feste, flirt con ragazzi più grandi). Ma anche questo idillio ben presto finisce, e con penose conseguenze: a scuola, Margherita aggredisce Daniela, che ha pesantemente apostrofato Caterina, provocando una vera e propria rissa e, di conseguenza, la convocazione dei genitori da parte del preside. Giancarlo, che fino a quel momento aveva tentato goffamente di inserirsi negli ambienti frequentati dalla figlia (prima proponendosi come scrittore alla madre di Margherita, poi come autore televisivo al padre di Daniela), si ritrova faccia a faccia con i padri delle compagne di classe. La visione dei due che si stringono la mano ignorandolo completamente, provoca in Giancarlo un esaurimento nervoso che lo allontanerà progressivamente dal suo lavoro e dalla famiglia, spingendolo a una vita nomade e solitaria. Caterina e la madre si riorganizzeranno, anche a partire dal piccolo successo personale della ragazzina che, nel frattempo, è riuscita ad entrare come corista al Conservatorio.

Introduzione al Film

Viva l’Italia! Per tentare di classificare il suo cinema sono stati addirittura tirati in ballo i film della commedia all’italiana, quelli che, nel corso degli anni Sessanta riuscirono a dare del Belpaese un ritratto paradossale e grottesco ma, in fondo, aderente alla realtà sociale del tempo. Paolo Virzì, attraverso cinque o sei film ha tentato di fare più o meno la stessa cosa: fissare tramite l’individuazione di “tipi” sociali, morali e politici – che fossero al tempo stesso tipi comici – la situazione dell’Italia degli ultimi dieci anni, quella della cosiddetta Seconda repubblica. Con Caterina va in città Virzì, sia pure in maniera indiretta (ovvero stigmatizzando attraverso le sue giovanissime protagoniste i vizi e le virtù degli adulti), va proprio al cuore del problema e traccia un identikit delle principali caratteristiche della cosiddetta Italia del maggioritario (il sistema elettorale introdotto all’indomani di Tangentopoli basato sul bipolarismo). Fin dal suo film d’esordio – La bella vita (1994) – Virzì, livornese d’origine, si era sempre tenuto lontano da Roma, sede proprio di quel potere politico, preferendo ambientare le sue storie, politicamente impegnate (e soprattutto schierate), in provincia, dando tuttavia ad intendere in più occasioni di puntare ad una messa in scena di situazioni che riflettevano – sia pur “in sedicesimo” – una condizione generalizzata del Paese che, proprio nella Capitale trovava il suo punto d’origine. A tale prerogativa non rinuncia neanche in quest’occasione, affidando sguardo e voce narrante a una ragazzina figlia di un insegnante delle superiori, trasferitasi con la famiglia a Roma dalla provincia di Viterbo che, paradossalmente, proprio come tutti i luoghi geograficamente molto vicini ai centri del potere, sembra antropologicamente e culturalmente lontanissimo dagli stessi. L’attacco vero e proprio al cuore del potere politico e intellettuale del Paese viene condotto, invece, attraverso la scoperta dei mondi opposti delle due comprimarie: entrambe romane, Margherita e Daniela sono le rappresentanti di tutti i peggiori difetti delle rispettive aree politico-sociali di appartenenza. Da un lato l’autocompiacimento della propria condizione“isolata” e fuori dagli schemi sociali tipica della sinistra, dall’altro la superficialità e l’ eccessivo conformismo ad un certo status da parte della destra. Al di là delle caratterizzazioni più o meno divertenti delle due fazioni (Virzì, quasi volendosi attenere alle regole della cosiddetta par condicio, assegna all’incirca la medesima dose di antipatia a entrambi gli schieramenti), ciò che emerge con maggior forza e dà da riflettere è soprattutto la capacità, messa sapientemente in evidenza, di “fare blocco”, tanto a destra quanto a sinistra, di imporsi come gruppi sociali compatti, dotati di veri e propri leader e di perpetueranno in futuro nei ruoli che le stesse protagoniste ricopriranno da adulte. Con logica implacabile – e una buona dose di semplificazione che, a volte, scade nella caricatura – Virzì assegna alle due ragazzine dei genitori che sono rispettivamente i rappresentati del potere politico di destra (Manlio Germano, padre di Daniela, è un potente ministro con trascorsi imbarazzanti nella destra extraparlamentare, una figura ricalcata con grande abilità su quella reale di un noto esponente politico italiano) e del potere culturale di sinistra (Lorenzo Rossi Chaillet è un professore universitario, un maître a penser che, pur essendo raffigurato come un personaggio bonario e svagato, ha le mani in pasta un po’ dappertutto). In un pre-finale che toglie ogni illusione allo spettatore, Virzì mette in scena la pantomima del potere (o meglio, dei due poteri) con il povero padre di Caterina costretto a vedere confermate tutte le proprie ossessioni, le proprie manie di persecuzione: il ministro e il professore che si stringono la mano, si scambiano apprezzamenti amichevoli per i rispettivi successi, in un gioco delle parti affatto imbarazzante, come due elementi perfettamente complementari di uno stesso mostruoso sistema. È l’immagine sconsolante di un paese che vede confermati i propri limiti culturali (ovvero quelli dei propri rappresentanti politici), forse con un tocco di qualunquismo necessario a fare della protagonista eponima (e della sua famiglia) l’unico vero personaggio degno di rispetto del film.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Alla ricerca di un’armonia corale “Ma tu sei zecca o pariola?” Con questa domanda (forse incomprensibile ai più perché tratta dal gergo giovanile della Capitale) uno dei nuovi compagni di classe di Caterina cerca di capire a quale delle due fazioni la ragazzina appartenga: da quel momento diviene immediatamente evidente che per lei sarà davvero difficile sottrarsi ad una qualsiasi scelta, per quanto provvisoria possa essere. “Zecche” è il modo spregiativo con cui vengono definiti a Roma gli appartenenti alla borghesia intellettuale prevalentemente di sinistra che, secondo quanto affermano i suoi detrattori, vivrebbe ben nascosta ma saldamente attaccata all’organismo che le ospita (lo Stato) succhiandone il sangue (gli stipendi statali e parastatali) senza nulla dare in cambio, mentre i Parioli è uno dei quartieri-bene della capitale, abitato per lo più dalla borghesia moderata e di destra: da qui “pariolo” o “pariola” a indicare coloro che vivono in quel quartiere e si rifanno a quella mentalità. Poco prima, presentandosi alla classe, forse per la prima volta compatta nel rimarcare l’assoluta estraneità della nuova arrivata (sia pure con le sfumature del dileggio da una parte e del compatimento dall’altra), Caterina candidamente aveva dato come indicazione della propria provenienza prima un punto cardinale (Nord-Nordovest, a rimarcare ulteriormente la centralità di Roma e, dunque, la marginalità della propria origine), poi una zona geografica indeterminata (la costa tirrenica), per confessare, infine la propria provenienza (Montalto di Castro). Con il suo accento da “burina” a modo, l’abbigliamento piccolo-borghese, dimesso ma assolutamente normale, il viso acqua e sapone e una dose infinita di ingenuità, Caterina, oltre a essere la metafora del cittadino italiano medio, è soprattutto un’adolescente che, per trovare e formarsi una propria identità deve provare molte esperienze. Proprio per coloro che dimostrano intelligenza e sensibilità, queste sono, per forza di cose, passeggere e vengono rielaborate all’interno di un percorso individuale articolato su piani diversi. Eccola, dunque, confrontarsi con l’anticonformismo radical-chic di sinistra, con gli atteggiamenti corrucciati e l’impegno politico a tutti i costi, con gli slogan – magari anche giusti – ma ripetuti macchinalmente e, successivamente, con l’adesione acritica alle tradizioni (anche quelle peggiori), con la caccia spasmodica agli status symbol imposti dalla moda, l’artificiosa ricerca della spensieratezza e del divertimento. Miracolosamente, Caterina resiste, supera le prove imposte e rimane se stessa, forte anche dell’esperienza del padre che, con la sua goffa ricerca di una qualche forma di visibilità a tutti i costi, fa ancor più risaltare la semplicità e la moderazione della figlia. Giancarlo, infatti, non è il tipico genitore frustrato dalla vita che cerca in tutti i modi di proiettare sulla propria prole le ambizioni che non ha potuto realizzare: lui cerca, al contrario, di realizzarle in prima persona servendosi della figlia, spingendola a farsi amici i potenti, per sentirsi vicino a loro. Caterina, al contrario, più che conquistare spazi di visibilità vuole costruire la propria identità di singolo, integrato tuttavia all’interno di una comunità democratica, estranea a quei meccanismi di inclusione ed esclusione tipici tanto delle dinamiche di socializzazione tra adolescenti quanto di gruppi di potere che agiscono all’interno della società. Non è un caso che la sua passione sia il canto corale: solo all’interno di questa attività basata sull’armonizzazione di una serie di componenti molto diverse in un gruppo riesce a sentirsi inserita in un sistema complesso, proprio come dovrebbe esserlo ogni cittadino. Fabrizio Colamartino  

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