Rosetta

di Jean Pierre e Luc Dardenne

(Belgio-Francia, 1999)

 

Sinossi

Belgio, anni Novanta. Rosetta, non ancora maggiorenne, deve farsi carico della propria sopravvivenza e di quella della madre, che è alcolizzata. Con quest’ultima condivide una roulotte in un camping che si trova in una vallata soprannominata “Grand Canyon”, un luogo in realtà umidissimo, immerso nella vegetazione di un bosco che Rosetta, ogni giorno, deve attraversare tornando dal lavoro. Tenta in ogni modo di opporsi al licenziamento da un posto in una fabbrica dove era stata assunta in prova: il direttore dell’azienda fa intervenire la polizia che, senza andare tanto per il sottile, la mette alla porta. Tornata a “Grand Canyon”, Rosetta si scontra con l’atteggiamento rinunciatario di sua madre che, per un sorso d’alcol, non esita a prostituirsi con chi le capita. Si reca in città per rivendere alcuni vestiti usati e conosce Riquet, un ragazzo che vende cialde in un chiosco: questi le fa conoscere il proprietario dell’esercizio che, dopo averle detto di non avere lavoro per lei, il giorno stesso la manda a chiamare. Ora Rosetta fa la pasticcera e, oltre al lavoro, sembra aver trovato anche un amico: Riquet. Questi le resta vicino anche quando, pochi giorni dopo, viene nuovamente licenziata: il ragazzo la accompagna, la rifocilla e le dà ospitalità quando, dopo l’ennesimo litigio con la madre, Rosetta decide di abbandonare la roulotte. In un’occasione Riquet rischia addirittura di annegare nel tentativo di recuperare da un canale alcune lenze con cui la ragazza cerca di pescare delle trote: Rosetta, dopo un momento di esitazione, lo aiuta a emergere dal fondo melmoso del canale. Malgrado le attenzioni rivoltele dal giovane, Rosetta intravede la possibilità di recuperare il posto di lavoro denunciando al proprietario del chiosco le piccole truffe perpetrate da Riquet: ottiene ciò che voleva ma deve subire la presenza ossessiva dell’amico tradito, che la pedina chiedendole ragione del suo gesto. Dopo alcuni giorni, tuttavia, le energie della ragazza sembrano esaurirsi di fronte alle pressioni di Riquet e all’ennesima delusione da parte della madre, sempre più dipendente dall’alcol, si chiude con quest’ultima nella roulotte e lascia aperto il rubinetto del gas. Ma anche il suicidio diventa un’impresa: la bombola è esaurita e Rosetta è costretta a uscire per acquistarne una nuova. Determinata a farla finita, si avvia verso la roulotte con il suo pesante carico: Riquet torna in quel momento a ossessionarla e Rosetta cade a terra, lasciandosi andare, per la prima volta, a un pianto dirotto. Riquet la aiuta a rialzarsi.

 

Il contesto storico: il film nella Storia del cinema

Se è possibile inquadrare un film come Rosetta all’interno del cosiddetto cinema militante, esso tuttavia se ne distanzia proprio grazie alle scelte formali dei suoi autori che ne fanno un vero e proprio caso a sé.

L’approccio fenomenologico alla storia narrata sgombra il campo dalla possibilità di inserire il film all’interno di un genere cinematografico che spesso ha la sua chiave di volta in una visione retorica e manicheista della realtà. Ciò che manca in Rosetta è la componente ideologica che spesso connota tale genere di produzione e, soprattutto, qualsiasi ambizione didascalica che possa suggerire soluzioni ai problemi pur lucidamente esposti.

Pensiamo ad esempio ad altri due cineasti solitamente annoverati sotto le bandiere della militanza: il veterano del cinema inglese Ken Loach e il francese Robert Guédiguian.

Nel primo caso abbiamo un atteggiamento coinvolto emotivamente che si traduce in un ingenuo senso di compassione per i personaggi; nel secondo una visione più distaccata e ironica, intellettualmente autocompiaciuta, quasi fiera del proprio stile “povero”, così come della propria povertà lo sono i protagonisti delle storie narrate.

Nei Dardenne, invece, assistiamo, a partire da La promesse (1996), passando per Rosetta, per giungere infine a Il figlio (2001), a una depurazione progressiva dello sguardo da qualsiasi volontà narrativa forte, a un’immissione diretta dello spettatore nella realtà della sopravvivenza dei personaggi che allontana tanto il pericolo della retorica quanto quello di mettere la storia al servizio di sovrastrutture ideologiche o politiche che, inevitabilmente, priverebbero il reale della sua forza di impatto.

Uno sguardo freddo e distaccato, insomma, ma non neutrale (anzi, decisamente schierato) che si traduce perfettamente nel loro attore-feticcio: quell’Olivier Gourmet interprete dei loro ultimi tre film (in Rosetta è il proprietario della pasticceria), capace di comunicare attraverso la sua maschera impassibile la banalità del male.

Analisi tematica

Grazie a un’adesione della messa in scena al soggetto tale da impedire una distinzione netta tra scelte formali operate e tematiche trattate, Rosetta è un film che ci priva quasi della possibilità di giudicare i fatti e tantomeno di trarre insegnamenti dalla vicenda narrata. Con un incipit che ci piomba in media res costringendoci ad accettare la realtà mostrataci, e un finale improvviso che lascia ben poco spazio alla speranza di una possibilità di riscatto, i fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne ci consegnano intatta un’esperienza di cinema che difficilmente si lascia ridurre entro i limiti consolanti di un’elaborazione razionale che possa riportare la storia del singolo entro le coordinate rassicuranti del sociale. La storia di Rosetta è spiazzante anzitutto perché insolitamente reale: abituati a stuoli di adolescenti che lottano per proclamare la propria libertà, per affermare la propria diversità, per cercare, magari molto lontano da casa propria, un’identità dai contorni incerti, ci troviamo (caso più unico che raro) di fronte a una ragazzina che combatte per affermare il proprio desiderio di normalità. Se non fosse che lotti per dei diritti che sono fondamentali per qualsiasi individuo, e se la sua storia non si caricasse spontaneamente di istanze progressiste per naturale opposizione a un sistema che spesso ignora quei diritti, si potrebbe affermare che quello di Rosetta sia un personaggio conservatore. A confermarcelo l’assenza di una vera e propria evoluzione del personaggio sia dal punto di vista ideologico ed emotivo (tranne che nell’ultima sequenza) sia da quello drammatico, nella misura in cui si può ragionevolmente affermare che il film non racconta niente ma si limita a registrare il quotidiano. Se Rosetta è costretta ad agire entro i limiti della lotta per la sopravvivenza, della conservazione di quel poco che ha, tuttavia sembra animata anche da un senso morale assoluto e primordiale che, al di là del puro e semplice bisogno, la porta a rifiutare qualsiasi aiuto esterno: all’ufficio di collocamento rifiuta il sussidio di disoccupazione e, in una delle sequenze più drammatiche, la vediamo gettare via il cibo che la madre ha avuto in regalo perché lo considera un’elemosina. Non è così, invece, per i vestiti ricevuti da un’associazione benefica: il lavoro (la madre ripara gli indumenti, e lei li rivende a un negozio di abiti usati) riesce a sottrarre gli oggetti al loro statuto di elemosina. Così, il lavoro non è più un semplice strumento di sussistenza materiale ma, più dell’amore o dell’amicizia (valori astratti e dunque non immediatamente quantificabili secondo la logica di abbrutimento cui è costretta Rosetta), diviene strumento di sopravvivenza della propria dignità di essere umano. Il lavoro, per lei, ha una funzione addirittura terapeutica: la sequenza in cui il pasticcere le insegna a impastare le cialde è una delle poche in cui la vediamo finalmente calma, addirittura rilassata. Di tale dimensione solitaria del personaggio, che solo nel rapporto con gli oggetti (meglio, con gli strumenti del proprio lavoro) riesce a trovare la serenità, è testimonianza un breve “dialogo” in cui la protagonista, tra sé e sé, fa il bilancio della propria esistenza e dal quale emerge l’isolamento di questo personaggio che cerca nella sua stessa voce, nelle proprie affermazioni, la conferma di una realtà, di un cambiamento del mondo intorno a sé, cui pare non riuscire a credere. Per Rosetta, dunque, l’Altro non esiste se non in un rapporto di scambio puramente strumentale: nell’unica sequenza in cui non la vediamo indaffarata a sopravvivere (quando Riquet l’ha invitata a casa sua) è chiusa in se stessa, completamente disinteressata ai discorsi dell’amico. Quando il giovane la invita a ballare, poi, scappa via in preda a forti dolori: il ballo, inteso come momento di seduzione, forse anche preludio di un atto sessuale, è inconcepibile per chi come Rosetta è costretta a concentrare tutte le proprie energie (e forse anche la libido) nell’atto del rimanere in vita. Analisi stilistica e narrativa Rosetta è uno di quei personaggi che sanno restituire una dimensione pienamente e autenticamente fisica alla realtà cinematografica: ciò è dovuto essenzialmente alla continua situazione di bisogno in cui questi personaggi vivono, a una ricerca necessaria perché dettata dalla sopravvivenza. L’opzione realistica dei Dardenne punta infatti su una descrizione minuta del mondo del loro personaggio e, nell’assenza di una vera e propria narrazione (il film è girato quasi interamente con una macchina da presa tenuta a spalla che tallona la protagonista, il montaggio è secco, si passa da una sequenza a un’altra nella totale assenza di codici narrativi che indichino il trascorrere del tempo), i singoli atti della protagonista possono essere isolati dal contesto per assurgere a una dimensione simbolica molto forte proprio perché presentati come inscindibili dal contesto reale nel quale sono collocati. Così, quando assistiamo alla sequenza in cui Rosetta strappa le piante che sua madre ha piantato poco prima davanti alla roulotte, possiamo leggervi del tutto legittimamente un desiderio da parte della ragazzina di non mettere radici in quel posto (poco dopo chiederà a Riquet quanto paga d’affitto per il povero monolocale in cui il giovane vive). Allo stesso modo, la caduta nel canale della protagonista durante una colluttazione con la madre, e l’immagine delle trote che si dibattono quando vengono tirate fuori dell’acqua, sembrano prefigurare sia il tentato suicidio del finale, sia la caduta in acqua di Riquet. La protagonista si aggrappa alle cose, agli oggetti, come nella sequenza in cui viene malmenata dai poliziotti o in quella in cui la vediamo avvinghiarsi a un sacco di farina dopo che il proprietario della pasticceria le ha comunicato il licenziamento. Quella di Rosetta è una vera e propria performance fisica, una corsa seguita spesso a stento dalla macchina da presa, una lotta per ricavarsi uno spazio che le sia esclusivo: la roulotte e il chiosco, così simili in fondo, non sono altro che due rifugi dai quali la protagonista deve scalzare per poter sopravvivere gli altri (la madre, Riquet). Insomma possiamo ragionevolmente affermare che Rosetta è un film in cui sono i fatti, nel senso più autentico e “fisico” di questo termine, a contare, e che questi fatti, come affermava il noto teorico del cinema André Bazin in un suo saggio sul Neorealismo italiano, sono come le pietre di un fiume: “[…] l’essenza delle pietre non è quella di permettere ai viaggiatori di attraversare i fiumi senza bagnarsi i piedi […]. I fatti sono fatti, la nostra immaginazione li utilizza, ma essi non hanno come funzione a priori di servirla”. In maniera ancor più evidente che nel loro film precedente, La promesse, gli autori scelgono di narrare una storia di emarginazione e di disagio, di disperazione e di solitudine, senza cercare la complicità dello spettatore o una speranza di possibile riscatto della protagonista. La realtà è indecifrabile nel suo scorrere affannato, non se ne può dare una lettura razionale e, se è difficile ricondurre il reale a una dimensione narrativa che possa dare un senso compiuto al caos della vita, impossibile è immaginare soluzioni edificanti che permettano allo spettatore un’identificazione col personaggio che mai avverrebbe nella realtà. Insomma, i Dardenne riescono, di film in film, a riallacciarsi sempre più e sempre meglio ai propri esordi nel campo del documentario liberandosi progressivamente da qualsiasi volontà di costruire drammaticamente le storie che narrano. [Fabrizio Colamartino]

 

Bibliografia essenziale - Articoli

Alberione, Ezio Il nome della rosa in [duel], a. vii, n. 76, dicembre 1999-gennaio 2000, p. 27

Causo, Massimo Fuoricampo in Filmcritica, a. xlix, n. 496-497, giugno-luglio 1999, pp. 296-300    

Chatrian, Carlo Primi piani. Rosetta in [duel], a. vii, n. 72, luglio-agosto 1999, pp. 48-49    

Lomabardi, Marco Rosetta in Film Stagione., nuova serie, a. vi (vii), n. 41, settembre-ottobre 1999, p. 76    

Zonta, Dario Luc e Jean-Pierre Dardenne: meno si racconta un personaggio e più esiste in [duel], a. vii, n. 76, dicembre 1999-gennaio 2000, p. 28    

Zonta, Dario Rosetta, la Mouchette di fine millennio in [duel], a. vii, dicembre 1999-gennaio 2000, p. 27    

Bénoliel, Bernard Rosetta de Jean-Pierre et Luc Dardenne in Cahiers du Cinéma, n. 536, juin 1999, p. 25    

Barisone, Luciano Rosetta in Cineforum, n. 385, giugno 1999, p. 48    

Chatrian, Carlo Solo un corpo. E la sua verità in Cineforum, n. 390, dicembre 1999, p. 22

 

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