Padre padrone

regia di Paolo e Vittorio Taviani

(Italia, 1977)

Sinossi

Il piccolo Gavino viene prelevato dal padre dalla scuola elementare che frequenta per essere portato in montagna ed avviato al mestiere di pastore.Tra insegnamenti sulla percezione sensibile della natura, lavori gravosi e faticosi, costrizioni ed impedimenti, estrema solitudine e violente punizioni corporali, l’infanzia di Gavino scorre a contatto con la natura aspra e selvatica della montagna sarda e la monotona reiterazione degli atteggiamenti e delle azioni. Qualunque minimo avvenimento attira la sua attenzione, anche se il mondo circostante si fa beffe del suo isolamento, come quando sacrifica due agnelli per scambiarli con una fisarmonica rotta, sfidando la sospettosa ira del padre. Arrivato a vent’anni, Gavino prova l’avventura lavorativa all’estero, ma il padre si rifiuta di firmare il permesso, rendendo vano il tentativo. Avviato alla carriera militare, dopo che il padre ha deciso di vendere il gregge e gli altri suoi averi, Gavino sente in modo sempre più insistente lo stimolo a formarsi una cultura valida che lo sottragga all’esclusione dovuta al suo analfabetismo. Inizia così un recupero culturale che lo porterà addirittura a laurearsi in glottologia, ad insegnare all’Università di Sassari e a scrivere il romanzo di successo da cui è tratto il film.

Presentazione Critica

Il film finisce ciclicamente ribadendo la prima scena: il vero Gavino Ledda, autore del romanzo da cui è tratta la pellicola, autentica presenza brechtiana che funge da ‘effetto di straniamento’ affinché lo spettatore indaghi attraverso un diaframma critico ciò che gli propongono le immagini, sostiene rivolto verso la macchina da presa che quella raccontata è “una storia che non è solo mia. Alcuni pastori di qua dicono che non io ma loro hanno fatto il libro, con la loro vita. La mia scelta ha avuto ed ha questo senso: per questo io credo nel mestiere dello scrittore. (...) Qua ho scritto il libro che inizia in un edificio simile a questo il giorno in cui mio padre venne a strapparmi dalla scuola...”. Pronunciate queste parole, inizia nuovamente la parte terminale della prima scena del film, quella in cui l’autoritario genitore rientra nella classe per redarguire i compagni di classe di Gavino che stanno canzonando rumorosamente il loro coetaneo. La frase arrogantemente espressa dal padre del bambino non lascia il minimo dubbio sul significato che assume la storia: “Oggi è toccato a Gavino, domani toccherà a voi... ”. La vicenda di Gavino Ledda, mirabile esempio della capacità dell’uomo di opporsi a qualunque tipo di barbarie ed oppressione per riappropriarsi del sacrosanto diritto all’educazione e al personale sviluppo evolutivo, si rifrange in una generalizzazione affrontata dai fratelli Taviani con metodo induttivo, partendo esplicitamente dall’evento particolare per giungere alla problematica universale della coercizione sull’infanzia, del mancato rispetto dei più elementari bisogni educativi, della prassi consolidata della violenza come mezzo sicuro di convincimento e formazione. La figura di Ledda diventa perciò l’exemplum, l’efficace veicolo per una narrazione che vede al suo centro una problematicità molto più vasta del caso singolo, che va ben al di là del personaggio Ledda per arrivare ad indagare la primordialità esasperata di un mondo basato soltanto sulla pulsione animalesca, sulle semplici sensazioni barbariche, sulla soddisfazione immediata degli istinti elementari (si pensi alla scena in cui le voglie sessuali trovano differenti ed anche sgradevoli appagamenti: qualcuno si sfoga con le bestie, qualcun altro con le proprie donne trattate alla stessa stregua, il tutto sottolineato dal sapiente uso degli effetti, basati su una sorta di linea sonora data dall’unione degli affannati gemiti dei vari personaggi). Il cammino infantile compiuto da Gavino, quindi, si propone come un percorso esemplare scandito dagli inflessibili insegnamenti paterni basati spesso sullo sviluppo delle facoltà sensitive (si veda quando l’uomo indica al bambino come avvertire i minimi rumori dati dallo stormire delle foglie o nel momento in cui, addirittura, gli rivela la possibilità di avvertire il sopraggiungere dell’alba da una serie di indizi naturali), sulla rigorosa dimostrazione a cui segue costantemente la punizione (la scena nella quale il padre colpisce Gavino con il serpente da cui il bambino era fuggito), sulla rigida repressione dell’istinto (le frustate per essersi allontanato dall’ovile per giocare con un coetaneo), sulla vendetta che si ciba di odi atavici (l’omicidio a bruciapelo di Sebastiano). Nella cosmogonia di Gavino il rapporto con il padre è soltanto l’espressione sintomatica di una realtà regolata da norme interne e a-razionali, simbolicamente rappresentate dalla crudeltà del paesaggio che non offre spiragli bucolici, ma soltanto asprezza ed inclemenza, ostinazione ed insensibilità. Ma anche se la soluzione praticabile potrebbe essere quella della fuga verso la cultura e la libertà, il personaggio Ledda, anche nel momento dell’emancipazione intellettuale, rimane ambiguamente ancorato alle sue radici, incapace di un distacco ritenuto traumatico (al punto da laurearsi con una tesi sui dialetti sardi); tendenza tra l’altro ribadita allegoricamente per tutta la durata del film nella palese manifestazione di un atteggiamento di attrazione e repulsione nei confronti del violento padre, immagine codificata di centenarie tradizioni, tacite leggi e supine accettazioni.

Giampiero Frasca