Les Choristes-I ragazzi del coro

di Christophe Barratier

(Francia/Svizzera/Germania, 2004) 

Sinossi

Tornato al paese natale in occasione della morte della madre, il celebre direttore d’orchestra Pierre Mohrange riceve la visita di Pépinot, un suo ex compagno di collegio negli anni dell’immediato dopoguerra. I due uomini, ormai sessantenni, ricordano i tempi in cui frequentavano l’istituto di rieducazione di Fond de l’Etang sfogliando il diario tenuto da uno dei loro sorveglianti, Clément Mathieu, compositore fallito adattatosi a fare il sorvegliante nei correzionali. All’indisciplinatezza della classe e all’indifferenza degli insegnanti, guidati dall’arcigno direttore Rachin, Mathieu aveva opposto metodi comprensivi, l’insegnamento della musica, il coinvolgimento dei ragazzi nella creazione di un coro. Grazie alla sua carica umana e all’organizzazione di queste attività, Mathieu era riuscito a conquistare subito la fiducia dei ragazzi nonché la stima di alcuni colleghi. A spiccare nel gruppo per il suo grande talento canoro, ma anche per l’introversione, era stato proprio Mohrange, del quale Mathieu aveva intuito le doti straordinarie e al quale si era legato anche perché segretamente innamorato di sua madre, una donna sola alla ricerca di qualcuno con cui rifarsi una vita. Dopo aver ottenuto qualche successo (un concerto eseguito alla presenza dei benefattori dell’istituto, del quale, tuttavia, Rachin s’era attribuito il merito, la promessa della madre di Mohrange di iscrivere il figlio ad una vera scuola di musica), Mathieu venne licenziato a causa di un incendio all’Istituto appiccato per vendetta da un giovane sbandato che Rachin aveva fatto rinchiudere in riformatorio accusandolo di un furto che, in realtà, il ragazzo non aveva commesso. Alla sua partenza i ragazzi gli dimostrano la loro riconoscenza gettando dalle finestre degli aeroplani di carta con messaggi di riconoscenza e di affetto.

Introduzione al Film

Dopoguerra francesi

Le origini di Les Choristes – I ragazzi del coro risalgono proprio agli anni in cui la storia narrata nel film è ambientata, ovvero quelli concomitanti e immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Fu proprio nel 1944, durante l’occupazione tedesca della Francia, che venne girato La gabbia degli usignoli (La Cage aux rossignol, Francia, 1944), il film che ha ispirato a sessanta anni di distanza il regista Christophe Barratier. Il soggetto delle due pellicole è praticamente lo stesso, anche se Les Choristes è improntato a un maggiore realismo rispetto alle atmosfere edulcorate dell’originale diretto da Jean Dréville e interpretato dallo chansonnier Noël Noël, in quegli anni – ma anche in seguito – vero e proprio cantore della “francesità” in un paese invaso dal nemico. Grazie a una cornice narrativa al tempo presente che pare ricalcata su quella di Nuovo cinema Paradiso (Italia, 1989) di Giuseppe Tornatore, il regista affida alle voci over dei protagonisti la ricostruzione delle vicende e mette a distanza quel periodo, circonfondendolo di un alone romantico giustificato dallo stratificarsi dei ricordi e dallo sfumare dei contorni di un passato forse diverso da quello conservato nella memoria dei protagonisti, in un’atmosfera decisamente più consona ai gusti e alle aspettative del pubblico contemporaneo. Un romanticismo che, tuttavia, non ha impedito di depennare dal soggetto del film del 1944 la parte finale della storia che vedeva il protagonista (Mathieu) raggiungere il successo mancato come musicista attraverso un romanzo tratto dai ricordi dell’esperienza nell’istituto e ciò a favore di una conclusione meno eclatante, apparentemente cupa e pessimista ma, alla fin fine, altrettanto consolatoria: in un’appendice del racconto, infatti, apprendiamo che Rachin venne cacciato dall’istituto in seguito alle denuncie degli altri insegnanti e che Mathieu riuscì ad adottare Pépinot, il più giovane degli orfani. Non è un caso, allora, che per il ruolo principale sia stato scelto proprio Gérard Jugnot, maschera inconfondibile del cinema d’oltralpe, attore specializzato nei ruoli di uomo comune (anzi comunissimo), capace di dare vita a personaggi umili e spesso perdenti che, tuttavia, nei momenti di necessità sanno dimostrarsi capaci di gesti altruistici, di grande umanità e generosità. Un ruolo, questo, che Jugnot ha continuato a costruire anche quando è passato dietro la macchina da presa, proprio come nel caso di Monsieur Batignole ( Francia, 2002), che con Les Choristes divide non pochi punti in comune. L’elemento più importante è l’ambientazione negli anni Quaranta del secolo scorso, cornice storica “classica” (specie per il cinema francese che spesso l’ha scelta per narrare storie di bambini e adolescenti inseriti all’interno di sistemi educativi più o meno coercitivi), il secondo, forse più nascosto ma altrettanto significativo, è il finale “analogo”, con il protagonista che si allontana conducendo in salvo con sé un ragazzino fuori da una di prigione: in Monsieur Batignole un piccolo ebreo dalla Francia occupata dalle truppe naziste, contagiata dal germe dell’intolleranza, in Les Choristes uno degli orfani lontano dal collegio gestito con metodi dispotici dal perfido direttore. Da questo raffronto il film di Barratier può aiutare a capire quanto poco, in fondo, l’esperienza drammatica delle dittature e gli eventi tragici della seconda guerra mondiale, fossero riusciti a cambiare nella mentalità della gente una serie di pregiudizi che con il fascismo erano diventati palesi ma che, all’indomani della sua sconfitta continuarono, malgrado tutto, a covare tra le pieghe del perbenismo e del conformismo.

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Toccare il fondo per risalire

Fond de l’Etang, il nome della località dove sorge il collegio, non è casuale: la sua traduzione in italiano è “Fondo dello stagno”, un’immagine eloquente che evoca acque melmose, che invischiano chi vi si avventuri, delle sabbie mobili che non danno scampo al malcapitato che dovesse cadervi dentro. In effetti, il collegio di Fond de l’Etang più che una struttura di recupero e supporto per bambini e adolescenti in difficoltà sembra un “parcheggio” o, meglio, un “binario morto” per orfani, figli di famiglie povere, soggetti “difficili” tanto dal punto di vista sociale quanto da quello psicologico. Così, tra le pieghe di un film nel quale la retorica è sempre in agguato (ma mai preponderante) e gli elementi patetici appena accennati, si fanno largo una serie di elementi di critica niente affatto banali a un sistema sociale tendente a isolare il diverso invece di favorirne l’integrazione. Anche la prima immagine del lungo flashback che rievoca la figura di Mathieu sembra suggerire questa lettura: il primo incontro che il futuro sorvegliante fa al suo arrivo in collegio è quello con il piccolo Pépinot, il più giovane e triste degli “ospiti” che, ogni giorno, si reca presso il cancello dell’istituto (la barriera fisica ma anche simbolica che separa i ragazzi dal resto del mondo) ad aspettare l’arrivo di un fantomatico padre che lo porti via con sé lontano da lì. Le speranze quotidianamente deluse del bambino, al quale è stata detta evidentemente una bugia “pietosa” per lenire l’amarezza del vedersi solo, sono quelle di tutti i giovani ospiti che, molto più realisticamente, invece di attendersi dei genitori che sanno benissimo di non avere (o sui quali sanno di non poter contare) avrebbero il diritto di aspettarsi qualche possibilità in più. Proprio quelle che Mathieu, rifiutando il ruolo di “sorvegliante”, riesce ad offrire loro attraverso la carica umana con cui nutre i propri insegnamenti ma, soprattutto, grazie al valore simbolico che il canto assume rispetto al contesto al cui interno si svolgono le vicende. Strumento di elevazione morale e di vera e propria estasi spirituale (nel senso etimologico del termine: ex stasis, ovvero “uscire fuori”), il canto costituisce istintivamente la prima e più originaria forma di espressione artistica, il modo più semplice per tirare fuori da ognuno la parte migliore e, allo stesso tempo, lo strumento attraverso il quale armonizzare più elementi all’interno di un gruppo dove tutte le voci hanno una funzione importante ma non indispensabile (significativa la sequenza in cui Mathieu esclude dal coro Mohrange per ridimensionare le aspettative eccessive del giovane solista). Il miracolo dell’insegnante è proprio quello di riuscire, all’interno di un ambiente che tende a isolare gli individui dal contesto sociale, a ricreare un’idea di civiltà e di armonia. Ma ciò cui allude in maniera forse più sottile ma ugualmente importante il coro di voci bianche di Fond de l’Etang è la fugacità ed inesorabile caducità della giovinezza: le voci dei piccoli cantori, straordinariamente melodiose e perfettamente armonizzate tra loro, rappresentano un dono che, per non farlo trascorrere invano, proprio come la giovinezza va sfruttato e vissuto fino in fondo. Non per tutti sarà così, e questo non solo nel caso di Mohrange per il quale la musica diventa non solo un elemento importante ma anche determinante per la sua esistenza futura, perdendo i connotati simbolici fin qui analizzati e assumendone di ben più concreti, ma anche nel caso di Pépinot che in Mathieu troverà un padre in carne ed ossa oltre che una importante figura di riferimento.

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Sono innumerevoli i film francesi che hanno proposto, più o meno realisticamente o poeticamente, la rappresentazione dell’infanzia e dell’adolescenza all’interno di contesti detentivi o in istituti di correzione più o meno severi: due esempi di altissimo livello sono il capolavoro di François Truffaut I quattrocento colpi (Les Quatre Cents Coups, Francia, 1959) nel quale il giovane Antoine Doinel viene rinchiuso con il benestare dei genitori in una sorta di correzionale (dal quale, nell’ultima celebre sequenza del film, fuggirà) e il bellissimo film di Claude Miller La piccola ladra (La petite voleuse, Francia, 1988) nel quale Janine, la protagonista adolescente, finisce in riformatorio a causa di una serie di furti. In tutti questi casi l’accento viene posto sul carattere punitivo di tali istituti e sull’incapacità da parte degli insegnanti di comprendere, seguire ed aiutare i minori a recuperare le posizioni perdute rispetto ai propri coetanei. In ambito anglosassone spicca, invece, il recente Magdalene (The Magdalene Sisters, Gran Bretagna/Irlanda, 2002) dell’attore-regista Peter Mullan nel quale si narrano le vicissitudini di tre ragazze recluse in una delle cosiddette “case della Maddalena”: in tale pellicola, tuttavia, si punta il dito sull’uso della religione cattolica come strumento di annullamento dell’individualità in nome di una morale repressiva eccessivamente rigida. Il film può altresì essere inserito all’interno di una rassegna incentrata sull’uso della musica e, più in generale dell’arte, come forme di riscatto sociale e di rafforzamento della personalità dei bambini e degli adolescenti: tra gli altri film da segnalare La musica del cuore (Music of the Heart, USA, 1999) di Wes Craven, Scoprendo Forrester (Finding Forrester, USA, 2000) di Gus Van Sant, 8 Mile (id, USA/Germania, 2002) di Curtis Hanson, Garage Demy (Jacquot de Nantes, Francia, 1991) di Agnes Varda.  

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