La vita è bella

di Roberto Benigni

(Italia, 1997)

Sinossi

Italia, anni Trenta. Guido è un giovanotto allegro e un po’ strambo che arriva in città con l’intenzione di aprire una libreria. Trova lavoro come cameriere in un grande albergo e, tuttavia, corteggia Dora, una ragazza altolocata che è promessa in moglie a un funzionario fascista. Grazie alla sua irruente e contagiosa allegria riesce a far breccia nel cuore della donna che, in barba al conformismo che la circonda, decide di sposarlo: dalla loro unione nasce Giosuè. Nonostante la pesante atmosfera causata dalla guerra e dalle persecuzioni razziali, la famigliola vive, per i primi anni, in un clima di serenità e spensieratezza, ma Guido, a causa delle proprie origini ebree, viene deportato insieme al figlioletto in un campo di concentramento nazista. Dora, nonostante sia ariana, chiede ed ottiene di seguirli nel loro orribile destino. Guido dovrà ricorrere a mille stratagemmi e trovate fantastiche per convincere Giosuè che la tremenda realtà che stanno vivendo sia un grande gioco collettivo. Grazie a lui il bambino riuscirà ad attraversare gli orrori della guerra sorridendo e, infine, a ricongiungersi alla madre.

Presentazione Critica

L’esperienza della guerra, di per sé devastante per chiunque, nel caso dei bambini ha l’ulteriore effetto di privare proprio chi avrebbe più diritto a vivere ingenuamente la propria età di qualsiasi illusione, della fiducia nel domani, della capacità di immaginare a causa dell’aver troppo visto e subito. È questo sicuramente uno tra i crimini più efferati che possano esistere poiché ha l’effetto di protrarsi nel tempo, di continuare anche all’indomani della fine delle guerre, quando le ferite materiali da esse prodotte sono ormai rimarginate. Se, infatti, un adulto può farsi una ragione, comprendere le cause storiche e politiche di una guerra o di un genocidio e, comunque, continuare a sperare e a proiettare nel futuro le proprie aspettative nei confronti della vita, un bambino riesce solo a vivere il presente. È proprio questa la logica che sembra governare il comportamento di Guido nei confronti del piccolo Giosuè: invertire di segno la realtà e, come spesso accade nella miglior tradizione comica, negare anche le apparenze più evidenti per trasformarle nel loro opposto. L’aberrante universo concentrazionario del campo di sterminio, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, gioca a favore del protagonista: la realtà è già così deformata e talmente assurda che a Guido basta poco per renderla credibile, in quanto gioco, agli occhi di Giosuè. Come in un gioco, infatti, ci sono una serie di prove da superare, e quanto più queste sono massacranti tanto più rendono credibile la prospettiva di un premio enorme come il carro armato promesso dal padre al figlioletto in caso di vittoria. I nazisti, inflessibili e brutali fino all’inverosimile, sono la caricatura di se stessi, come già lo era Hitler durante i propri comizi che quasi prefiguravano l’esilarante imitazione che ne avrebbe dato Chaplin in Il grande dittatore. La progressiva scomparsa dei compagni di camerata (mandati alle camere a gas perché ormai troppo deboli per lavorare) diventa, agli occhi del bambino, un’espulsione dal gioco per squalifica. Anche la più orribile tra le realtà del campo di concentramento diviene, nelle mani di Guido, un’ulteriore possibilità di smentita dell’ineluttabile destino cui, prima o poi, tutti i prigionieri vanno incontro: quando Giosuè viene a sapere dagli altri bambini reclusi che la loro fine è quella di essere trasformati in bottoni e saponette, suo padre ha gioco facile nel mostrargli come ciò sia assurdo. Già nella prima parte del film, vediamo Guido operare alcuni ribaltamenti comici della realtà per conquistare Dora: aiutato da una buona dose di fortuna e da altrettanta faccia tosta, egli riesce a tramutare la realtà in sogno, realizzando ‘magicamente’ qualsiasi desiderio della donna. È forse proprio questa infinita fiducia nel futuro (sia quello prossimo, governato dal casuale mescolarsi dei piccoli accadimenti, sia quello anteriore, dominato da eventi di portata storica) che offre al protagonista la possibilità, nonostante tutto, di preservare l’infanzia di suo figlio dagli orrori della guerra, di vedere in lui il proprio futuro oltre la morte. Alla sua uscita, La vita è bella fu al centro di una serie di polemiche sulla reale possibilità di affrontare il tema dei campi di sterminio nazisti per mezzo di un film che facesse del ribaltamento comico di situazioni tragiche la chiave di volta della sua struttura narrativa. Ciò che pochi compresero è che Benigni riesce a instaurare con lo spettatore una vera e propria sfida: dispiegando la propria abilità attraverso una serie di gag come sempre esilaranti, il comico toscano rende ancor più evidente l’orrore dei campi di concentramento, impedendoci, tranne che nelle ultime sequenze, di abbandonarci ad una liberatoria catarsi, forse anche facendo leva sui nostri sensi di colpa. Fabrizio Colamartino  

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