L'impero del sole

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Bambini nei conflitti armati Titoli Rassegne filmografiche

di Steven Spielberg

(Usa, 1987)

Sinossi

Jim Graham è il figlio dodicenne di un industriale britannico residente a Shanghai. Quando nel 1941 il Giappone invade la colonia inglese, il bambino viene separato dai genitori e rinchiuso in un campo di prigionia, qui si lega a Basie, un americano che gli insegna come sopravvivere alla dura vita del campo, e al dottor Rawlins che, invece, lo educa attraverso la lettura dei classici latini. Allo stesso tempo, Jim, che nutre per i kamikaze che si addestrano nel vicino aeroporto una vera e propria ammirazione, stringe un’amicizia a distanza con un giovanissimo militare giapponese che aspira a diventare pilota. Siamo ormai nel 1945 e, quando gli americani bombardano il campo, il ragazzino è costretto a fuggire: rifugiatosi in uno stadio, assisterà allo scoppio della bomba atomica su Hiroshima. Tratto in salvo dalla Croce Rossa, riuscirà a ricongiungersi ai genitori alla fine del conflitto, quasi incapace di riconoscerli dopo i lunghi e difficili anni trascorsi tra spaventose sofferenze che lo hanno fatto crescere troppo in fretta.

Analisi

Anche per il suo primo film, che si può definire serio e impegnato, tratto com’è dalla reale esperienza dello scrittore James G. Ballard (che, adolescente, trascorse un lungo periodo in un campo di prigionia giapponese) e basato su alcuni dei tragici eventi della seconda guerra mondiale, Steven Spielberg non rinuncia a legare lo sguardo dello spettatore a quello di un protagonista bambino. Quella narrata nell’Impero del sole è, infatti, al pari di tutti gli altri film di Spielberg, la storia di un’iniziazione alla vita di un ragazzino che, questa volta, si ritrova coinvolto nell’esperienza, straordinaria e tremenda al tempo stesso, di una guerra. Non sarà la prima né l’ultima volta che il regista affronta questo tema: lo aveva già fatto in chiave grottesca con 1941: allarme a Hollywood e ritornerà sull’argomento in maniera iperrealistica con Salvate il soldato Ryan. Ma L’impero del sole è distante tanto dall’umorismo del film del 1979 quanto lo è dalla drammaticità del kolossal del 1998: il sangue, il sudore e la polvere delle trincee, la fedeltà alla cronaca storica o anche soltanto le sofferenze quotidiane di chi una guerra la subisce e basta, per ora non interessano il regista, e questo perché tali contesti si legano quasi automaticamente a una dimensione terrena decisamente realistica, che esclude la possibilità di sviluppare due fra i temi più cari a Spielberg, diventati, di film in film, quasi inscindibili: la fantasia, come caratteristica esclusiva dei bambini, degli adolescenti e di pochissimi fortunati adulti, e il volo come occasione di emancipazione dai legami con la razionalità. Il volo e la fantasia sono, in fondo, due dimensioni molto vicine al cinema: entrambi sono mezzi per staccarsi da terra (dunque dalla quotidianità), e Jim, il giovane protagonista della storia, nato e cresciuto in un ambiente raffinato ma superficiale, sembra vedere negli aeroplani la possibilità di innalzarsi al di sopra della mediocrità che lo circonda. Jim è attratto, come molti tra gli eroi spielberghiani, da chi si colloca agli antipodi della cultura cui appartiene: i kamikaze giapponesi sono creature tanto affascinanti quanto gli alieni per Roy Neary in Incontri ravvicinati del terzo tipo, o ET per Elliott in E.T. – L’extraterrestre. Alla luce della poetica spielberghiana, dunque, l’amicizia tra Jim e il ragazzo giapponese che vuole diventare un kamikaze assume il valore del rispecchiamento. I due sono le facce opposte della stessa medaglia: quella del ragazzino attaccato alla vita e anche alla terra, mediocre nella sua quotidiana lotta per la sopravvivenza all’interno del campo, ma in fondo capace di volare con la fantasia, e quella dell’aspirante samurai, pronto a sacrificare la propria vita, a sublimarsi in un gesto simbolico che vede nello schianto – negazione del volo – la propria massima realizzazione. Ma il piccolo protagonista non solo non nasconde la propria ammirazione per i piloti nipponici, neppure quando viene da questi sottoposto a un tremendo regime di prigionia, ma, in un’occasione, sembra addirittura desiderare che la guerra incominci, come quando dalla sua stanza da letto invia dei segnali a una nave da guerra giapponese che, per tutta risposta, apre il fuoco sulla città. Si tratta soltanto di una coincidenza – ovviamente non sono le segnalazioni di Jim a provocare l’attacco – ma il bambino se ne sente a tal punto responsabile che, a suo padre, accorso per metterlo in salvo, dice: “Non sono stato io. Non volevo!”. È il desiderio inconscio di ogni bambino che, anche nella più tremenda delle catastrofi, vede principalmente il lato spettacolare dell’evento. E proprio questo sembra essere il senso dell’operazione di Spielberg: il regista ci mostra, infatti, una guerra ad altezza di bambino, con tutti gli orrori di un conflitto amplificati dallo sguardo di un protagonista ingenuo, ma anche un grande spettacolo, un gioco eccitante, la trasposizione in chiave fantastica di un dramma su scala mondiale. Perfino lo scoppio dell’atomica su Hiroshima si trasforma in una visione onirica e, paradossalmente, quasi celestiale: anche la più tremenda delle invenzioni diventa, in questo modo, produzione diretta dell’immaginario americano, così come lo è il cinema, almeno quello più spettacolare e di maggior successo. Fabrizio Colamartino  

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