Hijos - Figli

20/07/2009 Tipo di risorsa Schede film Temi Relazioni familiari Titoli Rassegne filmografiche

di Marco Bechis

(Argentina, Italia, 2001)

Sinossi

Buenos Aires, 1977. Una giovane donna partorisce in un ospedale due gemelli, un maschio e una femmina: ad aiutare la puerpera c’è solo un’ostetrica cui la donna chiede di salvare uno dei due bambini. Tutto avviene velocemente: non appena pulito, il maschietto viene portato via da due uomini dai modi sbrigativi, la femminuccia, che è stata nascosta in una borsa, viene fatta uscire dall’ospedale furtivamente dall’ostetrica, la giovane donna, ancora stravolta dal parto, viene trascinata via di peso da due militari. Milano, 2000. Rosa, una ragazza argentina, rintraccia, dopo averlo a lungo cercato, quello che lei afferma essere il suo gemello, Javier, che vive in una lussuosa villa dell’hinterland con suo padre Raul, ex pilota dell’aviazione argentina e sua madre Vittoria. Il primo incontro con Rosa fa rinascere in Javier dei dubbi che da sempre nutre, magari inconsciamente, ovvero di non essere realmente figlio della coppia che lo ha allevato. Messi con le spalle al muro dal ragazzo Raul e Vittoria prima rifiutano di parlare dell’argomento, poi reagiscono in modo scomposto (lui diventa aggressivo, lei si chiude in un enigmatico silenzio), accrescendo i sospetti di Javier che, a quel punto, decide di seguire Rosa a Barcellona. Giunti nella città spagnola rintracciano la vecchia ostetrica che rivela loro di aver visto all’ospedale, proprio il giorno in cui nacque Rosa, Vittoria con un cuscino sotto il maglione a simulare la gravidanza e Raul portare via rapidamente un fagotto. L’esame del dna, tuttavia, smentisce ogni relazione di consanguineità tra i due ragazzi. Anche se, ormai, molto legato a Rosa dalle vicissitudini degli ultimi giorni, Javier decide di ritornare a Milano dai genitori e alla vita di sempre, salvo poi, un po’ di tempo dopo, sparire improvvisamente. Ritroveremo il ragazzo a Buenos Aires, al fianco di Rosa, ad una manifestazione dell’associazione HIJOS che riunisce i parenti dei desaparecido e persegue gli ex militari del regime.

Introduzione al Film

La “lunga marcia” di un autore Il rapporto del regista italo-cileno Marco Bechis con l’Argentina può essere rappresentato come un percorso di avvicinamento, lento ma costante, verso l’epicentro di un dramma contemporaneo, la dittatura militare che afflisse il paese nella seconda metà degli anni Settanta e che produsse migliaia di desaparecidos. Un percorso vissuto dal regista direttamente sulla propria pelle (trasferitosi in Argentina nel 1977 Bechis fu sequestrato per quattro mesi in una delle prigioni clandestine del regime a Buenos Aires) e incominciato fin dal suo film di esordio, Alambrado che, pur ambientato in Patagonia e ricco di suggestioni distanti dalla realtà politica sudamericana del tempo, aveva per protagonisti due adolescenti (fratello e sorella) schiacciati dal peso di una figura paterna oppressiva dalla quale tentavano inutilmente di affrancarsi, ostacolandosi a vicenda nei propri tentativi di abbandonare il pezzo di terra cui una maledizione del genitore sembrava tenerli inchiodati. Questo schema (una realtà opprimente al cui interno ciascuno può soltanto provare, senza tuttavia riuscirvi, una fuga dalla propria sofferenza infliggendo dolore proprio a chi gli è più prossimo) poco più che adombrato in Alambrado, emerge con tutta la forza del film di impegno civile in Garage Olimpo nel quale è centrale il rapporto paradossale di interdipendenza tra vittime e carnefici (stavolta figure reali e non più metaforiche, proprio come la prigionia subita da Bechis nel 1977) nella cornice di una rappresentazione iperrealistica della violenta repressione attuata dalla dittatura. Infine, con Figli – Hijos, il regista approfondisce il discorso sugli anni bui delle dittature sudamericane, ma adottando una prospettiva diversa, più intima, apparentemente soffocata e, forse proprio per questo, più dolorosa. Si tratta di coloro che, nati durante il periodo della dittatura da coloro che erano detenuti nelle carceri politiche – i futuri desaparecidos – pagano le conseguenze di quel periodo di violenza molti anni dopo, in maniera altrettanto pesante. La sfida è quella di raccontare il dolore dei figli, riflesso (nel duplice senso di “differito nel tempo” e “speculare”) rispetto a quello dei genitori: allo stesso modo in cui gli aguzzini di Garage Olimpo negavano l’identità di questi ultimi attraverso la reclusione e le sevizie, i protagonisti di Hijos si trovano nella condizione di dover (rin)negare quella che credevano fosse la propria identità per tentare di recuperarne una reale attraverso un percorso doloroso. Grazie a un sapiente impiego delle luci, a una cura maniacale per le inquadrature, a un uso espressivo degli spazi (gli interni, anonimi e inospitali, sono gli ambienti di elaborazione delle emozioni e dei sentimenti, gli esterni desolati e freddi sono i luoghi dello smarrimento e della perdita di se stessi) e persino delle condizioni atmosferiche (la nebbia di Milano, la luce fredda di Barcellona, la notte torrida di Buenos Aires), Bechis riesce a suggerire e a far emergere con grande sensibilità lo sgomento, i dubbi, l’ansia dei protagonisti, letteralmente sospesi in una condizione di in-coscienza. Il film passa, così, dalla prima sequenza in cui la nascita dei due gemelli è filmata attraverso uno stile narrativo visivamente molto forte (simile a quello di Garage Olimpo), teso a creare delle aspettative fittizie nello spettatore (si tratta del racconto della levatrice che, tuttavia, verrà in seguito smentito dall’analisi del DNA) a quelle ambientate nel presente, dal taglio più contemporaneo, volte a rappresentare la “normalità” della vita di Javier, immerso nella tranquillità borghese della sua famiglia, connotate, per questo, da riprese sfocate, così com’è indefinita la vita del ragazzo, ancora ignaro di quanto gli sta per accadere.  

Il ruolo del minore e la sua rappresentazione

Identità sospese “Tu non sai chi sei”: con questa frase a metà strada tra l’ammonimento e l’accusa, talmente sibillina da apparire priva di senso, Rosa saluta Javier, colui che crede essere suo fratello, per lasciarlo avvolto in una nebbia che rende perfettamente lo stato d’animo del ragazzo, quello di chi si ritrova sospeso nel dubbio angosciante prodotto dal vedere messa in gioco la propria identità, le proprie certezze, tanto più se queste appaiono granitiche, come quelle prodotte da un ambiente borghese che, con la sicurezza economica e i (presunti) valori morali che offre, è apparentemente impermeabile a influenze esterne che ne possano minare le basi. Il tema della “sospensione” della propria identità, del sentirsi in bilico su un baratro prodotto dell’improvvisa incapacità di riconoscersi in tutto ciò che solo fino a poco prima dava il senso alla vita tanto da apparire ovvio e scontato, va ad informare, come accennato in precedenza, la costruzione del film: la nave con cui raggiungono Barcellona, la teleferica su cui Rosa e Javier salgono per attraversare la città, l’ospedale nel quale si recano per far analizzare il dna, tutti luoghi connotati da ampie superfici a vetri che rendono ancor più palpabile il senso di incertezza e vulnerabilità, vengono trasformati attraverso un uso sapiente della macchina da presa, in spazi sospesi, letteralmente o metaforicamente, tra cielo e terra (si pensi anche all’hobby di Javier, il paracadutismo), tra cielo e mare. Tali immagini, oltre ad essere metafore della condizione esistenziale dei due ragazzi, rimandano all’inquadratura che chiude la prima sequenza, quella ambientata nel 1977, una distesa d’acqua – l’oceano – ripresa da un aereo: migliaia furono gli oppositori gettati in mare (e, ovviamente, mai più ritrovati) dagli aerei militari. Sono luoghi di transizione da una condizione di apparente sicurezza (anche Rosa vive nell’illusione di rimettere insieme almeno ciò che resta della sua presunta famiglia) ad un’altra in cui, al posto delle certezze (quelle iniziali di Javier rispetto alla propria famiglia, quelle di Rosa rispetto a Javier) attestate da un certificato anagrafico o da un esame biologico deve sostituirsi una nuova coscienza, anche e soprattutto politica, raggiunta attraverso un percorso doloroso. Invano i due ragazzi vivono nell’illusione di poter colmare le proprie solitudini, i propri vuoti esistenziali con una nuova condizione, a entrambi ignota, ovvero passando dallo stato di “figli” a quella di fratelli, persino gemelli: in una delle sequenze più suggestive e toccanti del film Rosa e Javier giacciono seminudi nel letto della stanza d’albergo di Barcellona e vivono per un momento l’illusione di ri-conoscersi confrontando i propri corpi, individuando piccole ma significative somiglianze. È una delle tante false piste di cui è disseminato il racconto, utili per tenere lo spettatore in bilico (proprio come i protagonisti) e guidarlo verso un finale che è solo all’apparenza deludente, nel quale a dominare è, invece, un sentimento di consapevolezza accresciuta, non di banale soddisfazione delle proprie aspettative. La condizione predisposta dai genitori attorno a Javier fatta di rituali borghesi ai quali fa da sfondo la villa di famiglia, lussuosa ma fredda (un altro ambiente connotato da ampie vetrate che, tuttavia, in questo caso sembrano avere la funzione di far sì che i genitori possano controllare i movimenti di Javier), scenario per una vita artificiale, priva di sorprese e possibili delusioni o disillusioni, contraffatta abilmente anche per mezzo di fotografie e ricordi che sembrano attestare un passato affettivo in realtà inesistente (si veda l’eccesso di coccole di Vittoria nei confronti del figlio), viene sì sconvolta dall’arrivo di Rosa, ma in un senso completamente diverso da quello che si sarebbe potuto supporre in principio. Paradossale contrappasso per i genitori di Javier che, quando sembrava che fosse ritornato una volta per tutte, vedono il figlio sparire da un momento all’altro, proprio come era apparso nella loro vita da un momento all’altro: quel figlio che reclamano appellandosi all’affetto che hanno saputo dare nel corso degli anni, e non – ovviamente – in base a motivi “biologici”, li abbandona per accedere ad uno stato di consapevolezza superiore, ovvero spostando i termini della questione su un piano diverso, più politico. Un piano “politico” nutrito, tuttavia, dal sentimento di appartenenza ad una comunità di individui che, proprio a partire dalle tragiche vicende vissute dai loro veri parenti, hanno individuato nei valori democratici e civili da essi invano difesi e in quella triste stagione dittatoriale brutalmente conculcati, i propri “affetti” più importanti.  

Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici

Orfani tra memoria e Storia Sono tante le storie narrate dal cinema che hanno per protagonisti dei fratelli – o presunti tali – che si ritrovano a distanza di anni a confrontare i propri rispettivi vissuti (un esempio per tutti può essere Cronaca familiare di Valerio Zurlini); non mancano neanche alcuni film che raccontano il disagio dei figli adottivi nell’apprendere la propria reale condizione tenuta celata per anni dai genitori (La regina degli scacchi di Claudia Florio), anche se Hijos narra di un caso estremo, quello di un adolescente che scopre di essere figlio di coloro che ebbero un ruolo più o meno attivo nella persecuzione ed eliminazione fisica dei suoi genitori. La vicenda di Rosa e Javier, dunque, può essere facilmente accostata, all’interno di un percorso educativo che voglia analizzare e mettere in rapporto due temi come quelli della memoria e della Storia, al film di Marta Meszaros Diario per i miei figli che narra la storia di un’orfana figlia di dissidenti politici sotto il regime comunista ungherese che, non senza difficoltà e sofferenze, comprende di dover tutelare nel proprio ricordo l’immagine dei genitori che la dittatura e lo scorrere del tempo vogliono cancellare. (FC)

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